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Almasri, l’arresto a Tripoli riapre il caso italiano: chi sapeva, e quando

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Almasri, l’arresto a Tripoli riapre il caso italiano: chi sapeva, e quando

La notizia arriva da Tripoli il 5 novembre, nel tardo pomeriggio. Osama al-Masri, ex responsabile della sicurezza penitenziaria libica, è stato arrestato con accuse gravissime: torture su almeno dieci detenuti e l’omicidio di un prigioniero. È lo stesso uomo già transitato in Italia lo scorso gennaio, fermato, identificato e poi rispedito in Libia su un volo di Stato. Allora la vicenda fu raccontata come un episodio tecnico, una pratica di routine. Oggi, dopo l’arresto, diventa un caso politico e giudiziario che costringe Roma a spiegare, passo dopo passo, chi sapeva cosa e quando.

Almasri, l’arresto a Tripoli riapre il caso italiano: chi sapeva, e quando

Secondo fonti di governo, l’Italia era a conoscenza del mandato di cattura emesso dalla Procura generale libica e della richiesta di estradizione inoltrata quasi in parallelo alla segnalazione alla Corte penale internazionale. Se questa versione verrà confermata, significa che a gennaio le autorità italiane disponevano già di elementi ufficiali sullo status giudiziario di Almasri. La domanda, ora, è inevitabile: quelle informazioni hanno influito sulle decisioni politiche e amministrative che portarono al suo rientro? Oppure furono archiviate come non vincolanti?

Palazzo Chigi si difende, l’opposizione attacca
A Palazzo Chigi la linea è difensiva: “Tutto è stato fatto secondo le regole”, assicurano fonti vicine al governo. La decisione di lasciar partire Almasri, sostengono, rispondeva a esigenze di ordine interno e di sicurezza, e si inseriva in un quadro di cooperazione con Tripoli che non poteva essere interrotto. Ma l’opposizione non ci sta e parla apertamente di “figuraccia internazionale”. Pd, M5s, Avs, Italia Viva e Azione chiedono un’informativa urgente alla Camera per ottenere la cronologia completa degli atti: le date di ricezione delle richieste libiche, i passaggi tra Esteri, Giustizia e Interno, le comunicazioni con la Corte dell’Aja.

Elly Schlein, segretaria del Pd, chiede al governo “di chiedere scusa agli italiani”, mentre Giuseppe Conte parla di “umiliazione per l’Italia”. Nicola Fratoianni accusa frontalmente: “Quello che Nordio, Piantedosi e Mantovano impedirono a gennaio, oggi accade in Libia. È la prova che la legge è stata violata”.

Una catena da ricostruire
La vicenda si regge su una sequenza precisa. Gennaio: fermo in Italia, identificazione, e rientro a Tripoli. Primavera: prime critiche della Corte penale internazionale, che accusa Roma di non aver rispettato gli obblighi di cooperazione. Novembre: arresto in Libia, con accuse circostanziate e nuove prove raccolte. Ogni passaggio, oggi, pesa come un macigno. Se le autorità italiane erano consapevoli del rischio che Almasri fosse oggetto di procedimenti per torture e crimini di guerra, la scelta di farlo ripartire rischia di trasformarsi da decisione amministrativa in responsabilità politica.

La dimensione internazionale
L’arresto di Almasri è presentato dalla Procura di Tripoli come l’esito di un’inchiesta interna sulle violazioni dei diritti umani nelle carceri libiche. Ma per Roma e Bruxelles il caso ha implicazioni ben più ampie. Si intreccia con i rapporti bilaterali sulla gestione dei flussi migratori, con i finanziamenti europei alla Guardia costiera libica e con la cooperazione giudiziaria. Un equilibrio delicatissimo, costruito negli anni sulla promessa di “stabilità nel Mediterraneo”, che ora vacilla di fronte al sospetto di aver chiuso gli occhi davanti a un presunto torturatore.

Le domande inevase

Restano interrogativi centrali: chi firmò i documenti di rilascio a gennaio? Quali valutazioni giuridiche arrivarono alla Farnesina e al ministero della Giustizia? Il Viminale ricevette segnalazioni su rischi di trattamenti inumani in caso di rimpatrio? In altre parole: lo Stato ha rispettato le proprie regole o ha scelto la via più rapida per liberarsi di un caso scomodo?

Domande che non appartengono solo all’arena politica. Sono questioni di legalità, di trasparenza e di coerenza internazionale. E per affrontarle non bastano comunicati anonimi: servono atti, protocolli, verbali e responsabilità nominali.

Le prossime mosse
Nelle prossime ore, la Commissione Affari Esteri della Camera potrebbe calendarizzare l’informativa richiesta dalle opposizioni. L’obiettivo è acquisire le carte, chiarire il ruolo dei ministeri e verificare la catena decisionale. Sul fronte libico, la Procura di Tripoli dovrà formalizzare i capi d’accusa e decidere se coordinarsi con la Corte dell’Aja per eventuali procedimenti sui crimini di guerra.

Il governo intanto prova a tenere il punto: “L’arresto dimostra che la cooperazione con le autorità libiche funziona”, spiegano da Chigi. Ma la controparte parlamentare ribatte che è proprio quell’arresto a confermare gli errori di gennaio.

Una prova di credibilità
In ultima analisi, il caso Almasri non riguarda solo la diplomazia. È un banco di prova per la credibilità dello Stato di diritto. Per la Libia, chiamata a dimostrare di poter giudicare i propri funzionari senza interferenze politiche. Per l’Italia, che deve spiegare ai partner europei come gestisce le relazioni con Paesi accusati di violazioni sistematiche dei diritti umani. E per Bruxelles, costretta a misurare la propria retorica sui diritti con la realtà delle intese operative nel Mediterraneo.

Se la verità emergerà per intero, sarà merito dei documenti, non delle dichiarazioni. Perché la trasparenza, quando si parla di cooperazione e giustizia internazionale, non è un optional. È il solo strumento che distingue la politica dalla propaganda.

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