Peschiera e dintorni, quando il pericolo sta nell’indifferenza della differenza

- di: Barbara Leone
 
Prima gita da sole, senza genitori o fratelli a proteggerle. Destinazione: Gardaland, meta prediletta degli adolescenti dell’hinterland milanese in giorno di festa come il 2 giugno. Mai avrebbero immaginato le cinque ragazzine protagoniste di questa orribile storia di finire direttamente all’inferno. Quello del treno che le avrebbe dovute riportare a casa, e che invece si è trasformato in una trappola senza via di fuga. Sul regionale diretto a Milano, infatti, le cinque ragazzine sono state accerchiate, molestate, umiliate e vessate da un branco di belve inferocite, ubriache e completamente fuori controllo. Una trentina, tra cui anche diverse ragazze che hanno dato man forte agli aggressori. Solo qualche ora prima Peschiera era stata messa a ferro e fuoco, probabilmente dallo stesso branco. Una cosa è certa: sia gli uni che gli altri erano italiani di seconda generazione di origine nordafricana e ragazzi nordafricani immigrati in Italia. Tutto è partito con un passaparola su TikTok con la scusa di una sorta di raduno dalla strampalata matrice di rivendicazione etnica. “Questa è l’Africa” è il grido di battaglia, con tanto di bandiere marocchine sventolate in aria. Poi il finimondo: sassaiole, bottiglie rotte, insulti e pestaggi tant’è vero che è dovuta intervenire la polizia in tenuta antisommossa. Un fiume in piena, rabbioso e violento che dopo lo scempio operato per le strade di Peschiera si è spostato sui treni. E qui le belve hanno trovato le prede. Fortuna ha voluto che le ragazze siano riuscite a scappare aiutate, pare, proprio da un ragazzo di colore che facendosi strada in mezzo alla calca è riuscito ad aprire le porte del treno per farle fuggire.

E se così fosse vorremmo conoscerne il nome, lo vorrebbe conoscere tutt’Italia, proprio per esorcizzare la paura dell’uomo nero che, fisiologicamente e strumentalmente da parte di alcuni, si è innescata da questa brutta storia. Che è una storia di violenza, di pubblica sicurezza e non di razzismo. Il punto è tutto qui. Perché forse bisognava ascoltare gli allarmi lanciati da alcuni amministratori prima del cosiddetto raduno peraltro non autorizzato. Ed era anche alquanto prevedibile che si sarebbero potute verificare tensioni e situazioni pericolose visto l’alto numero di partecipanti e l’abbondante uso di alcolici al seguito. Degenerazioni violente con altri protagonisti sono capitate di recente a Jesolo, Lucca, Chieti e in molte altre città italiane. O vogliamo dimenticare le aggressioni sessuali in Piazza Duomo a Milano a Capodanno? La verità è che quella dei giovani violenti sta cominciando a diventare una deriva, che se non arginata può diventare oltremodo pericolosa e non più recuperabile. Il problema della marginalizzazione giovanile, poi, coinvolge figli di migranti e non. I fenomeni delle baby gang e del teppismo metropolitano sono solo uno dei sintomi di questo malessere sociale ed esistenziale, ma anche la riprova dell’urgenza di avviare o rafforzare tutti quei percorsi ed interventi educativo-sociali volti all’integrazione e all’inclusione dei giovani stranieri di seconda o terza generazione. Proprio per scongiurare la loro ghettizzazione, nociva per loro e anche per noi. Che poi già questo noi/loro è veramente insopportabile,  e sappiamo bene che molti politici ci inzuppano il biscotto. Ma il problema c’è, esiste.

E sarebbe da stolti fingere di non vederlo. Non dimentichiamoci che nella vicina Francia sono anni che si verificano episodi simili nelle tristemente famose Banlieue, ove gli immigrati di seconda e pure terza generazione non sono mai riusciti ad integrarsi e si sentono, e per molti versi lo sono, ghettizzati dalla popolazione francese. Invece di imparare dagli errori dei cugini d’oltralpe stiamo facendo la stessa cosa, se non di peggio. Perché l’integrazione è possibile, oltre che preziosa. Ma costa fatica da ambo le parti, non è scontata, non casca dal cielo perché volenti o nolenti proveniamo da culture diverse. Nascondersi dietro un dito e soprattutto dietro l’insopportabile politicaly correct fa solo danni e non è costruttivo. Dal canto loro questi ragazzi dicono che si sentono emarginati, che non si sentono italiani e quindi, neanche troppo velatamente, ci addossano le colpe di tutto. E sono loro stessi per primi a definirsi neri. Una auto identificazione, questa, che può far pericolosamente gola anche ad alcuni bianchi italiani che vivono nell’emarginazione delle periferie. Quel che è certo, è che tra i giovani tutti vi è un forte bisogno di riconoscimento, di identità. Un’identità troppo spesso negata proprio in virtù di quel politicaly correct di cui sopra, e del volemose bene siamo tutti uguali. Certo che siamo tutti uguali, ma anche tutti diversi, e vivaddio che sia così. Il pericolo sta proprio nell’indifferenza della differenza, in quel siamo tutti uguali sempre e comunque e ad ogni costo, che mortifica innanzitutto chi proviene da culture e vissuti diversi. E che fa dimenticare a noi il lavoro certosino e quotidiano che deve necessariamente esserci a monte di qualsiasi forma d’accoglienza.
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