Osservitalia 2021: le PMI resistono alla crisi causata dal Covid

- di: Redazione
 
Il Rapporto Cerved PMI 2021 fotografa gli impatti del Covid sulle piccole e medie imprese italiane, con approfondimenti sui settori più colpiti dalla pandemia, sulle dinamiche legate a demografia d’impresa e pagamenti, sull’evoluzione del rischio di credito e degli altri rischi legati al climate change e alla transizione ambientale. Il focus di questa edizione è su come finanziare il rilancio attraverso interventi selettive destinati ad imprese con il potenziale di creare ricchezza e occupazione. Sulla base di sistemi di score elaborati ad hoc, Cerved ha identificato le imprese con buone prospettive economiche ma con problemi finanziari, per cui è razionale investire risorse pubbliche, distinguendole da quelle in grado di finanziarsi da sole e da quelle decotte che invece potrebbero diventare zombie firms.

Dopo una fase di lenta ripresa, la pandemia ha prodotto effetti severi sul sistema di PMI

L’emergenza sanitaria seguita alla diffusione del Covid-19 ha bruscamente interrotto il graduale e lento processo di ripresa delle PMI italiane che le ha portate soltanto nel 2018 a recuperare i livelli di fatturato del 2007. In media, le PMI hanno contratto i ricavi in termini reali dell’8,8% tra 2019 e 2020, il calo maggiore osservato in tutta la serie storica monitorata. Le piccole imprese, quelle che impiegano tra 10 e 50 addetti, hanno patito maggiormente la crisi (con un calo del -9,1%), che comunque si è abbattuta con forza anche sulle medie (-6,3%) e sulle grandi società (-5,4%). Nonostante i ristori, che secondo stime basate sui bilanci hanno fornito un contributo pari a 2,7 miliardi di euro per la platea di PMI, e il deciso taglio dei costi operativi – soprattutto materie prime e semilavorati – gli impatti sul valore aggiunto sono stati anche maggiori, con un calo del 9,2%.

La crisi pandemica ha anche generato effetti molto evidenti sulla demografia di impresa. Nel corso del 2020 è crollato il numero di nuove “vere” società di capitale (-13,8%), il bacino da cui possono nascere PMI. Il rimbalzo della prima metà del 2021 è stato insufficiente per recuperare il gap di mancate nascite, accumulato soprattutto nella fase di lockdown. Il numero di PMI è tornato quindi a contrarsi dopo una lunga fase positiva: da circa 160 mila PMI del 2019 si è passati a 154 mila del 2020 (-3,9%). Oltre al crollo delle nascite, ha inciso l’alto numero di società che hanno ridimensionato il proprio giro d’affari, uscendo dal perimetro di PMI per entrare in quello delle microimprese.

Le PMI mostrano un elevato grado di resilienza, anche grazie ai massicci interventi di policy

Nonostante l’entità della crisi, i dati relativi ai bilanci, alle abitudini di pagamento e agli score creditizi evidenziano la buona tenuta finanziaria del sistema italiano di PMI e una ripresa sostenuta nel corso del 2021.

Le prolungate chiusure e il calo della domanda hanno provocato per molte aziende una temporanea crisi di liquidità, che si è riflessa nella richiesta al sistema bancario di prestiti a breve. L’ampia disponibilità di garanzie pubbliche ha consentito alle banche di soddisfare queste richieste. Il trend dei debiti finanziari, che aveva dimostrato una tendenza piuttosto fiacca nel corso degli scorsi anni, ha fatto registrare un’impennata nel 2020 (+11,9%). Le esigenze di liquidità sono quindi state più che soddisfatte, tanto che alla fine del 2020 le PMI avevano accumulato ampie riserve, grazie soprattutto al contributo dei prestiti.

I dati di Payline, indicano che questa liquidità è stata impiegata anche per tornare a saldare le fatture commerciali. La crisi dei mancati pagamenti è stata solo temporanea: dopo un picco, toccato a maggio 2020, le PMI hanno mostrato chiari progressi. A giugno 2021 gli indicatori relativi ai pagamenti mostravano addirittura una situazione migliore rispetto a quella pre-crisi: una quota più bassa di fatture non saldate, una maggiore puntualità e tempi di pagamento più rapidi. Questo è coinciso con un irrigidimento delle condizioni in fattura, che riflette la maggiore prudenza di chi offre credito commerciale.

Per far fronte al maggiore indebitamento delle imprese, il governo ha varato diversi interventi a sostegno della capitalizzazione. In particolare, la possibilità di rivalutare gli attivi è stata ampiamente utilizzata, con un impatto quantificabile in circa 42 miliardi di euro, che ha fatto crescere il capitale netto delle PMI del 15% tra 2019 e 2020. Neutralizzando questi effetti puramente contabili, l’equity delle PMI è comunque cresciuto (+2,8% secondo le stime), anche se a ritmi decisamente più ridotti rispetto ai debiti finanziari.

Al netto delle rivalutazioni, il leverage è tornato ad aumentare, passando dal 66,9% al 72,8%, ma mantenendosi a livelli molto più bassi rispetto a quelli ante crisi del 2008-2009 (115%).

Anche gli altri indicatori di sostenibilità finanziaria fanno segnare un peggioramento, ma su livelli non critici. Il rapporto tra oneri finanziari e Mol, uno degli indici più utilizzati dagli analisti per valutare la capacità delle imprese di onorare i propri impegni con le banche, è risalito solo leggermente nel 2020 (all’11,7% dal 10% dell’anno precedente).

Natura asimmetrica della crisi, con effetti concentrati su alcuni settori

Per effetto dei provvedimenti selettivi di chiusura o di restrizione e dei cambiamenti profondi innescati dal Covid nella struttura della domanda e dell’offerta, gli impatti della crisi sul nostro sistema produttivo risultano molto differenziati. La natura fortemente asimmetrica dello shock è testimoniata dalla grande polarizzazione delle perfomance delle PMI: un gruppo piuttosto ampio di PMI (45mila, il 28,2% del campione) ha subito nel 2020 un impatto forte, con un calo dei ricavi superiore al 20%; all’estremo opposto circa 40 mila PMI (il 26%) hanno accresciuto i ricavi nonostante la pandemia.

I settori più colpiti dalla pandemia sono stati quelli condizionati dai divieti di assembramento e dalle limitazioni alla mobilità, come agenzie di viaggi o alberghi, che hanno perso più della metà del fatturato. Viceversa, ne hanno beneficiato settori come l’e-commerce, favorito dall’accelerazione del processo di digitalizzazione, o quello dei prodotti per la detergenza, grazie alle abitudini di contrasto al diffondersi dell’epidemia.

Data l’asimmetria dello shock, le conseguenze sulla redditività e sulla sostenibilità finanziaria delle PMI sono state molto diversificate. In media, le 45 mila PMI più colpite dal Covid hanno ridotto il MOL del 67% (-14% per il totale delle PMI), hanno azzerato il ritorno sull’attivo e hanno subito un’impennata del peso degli oneri finanziari sul Mol. Solo il leverage, pur evidenziando una differenza chiara rispetto al resto delle PMI (83% contro 73%) si è attestato su livelli non critici. I dati più recenti sulle abitudini di pagamento delle PMI indicano che, per molte di queste imprese, gli effetti della pandemia potrebbero essere persistenti e aver incrinato la sostenibilità finanziaria.

Le PMI fortemente colpite dalla pandemia continuano a pagare in modo irregolare i propri fornitori anche nel 2021, accumulando mancati pagamenti e ritardi. In alcuni settori, come l’organizzazione di fiere e convegni, la cinematografia e le agenzie di viaggi, la quota di mancati pagamenti è ancora a giungo 2021 su livelli patologici, superiori al 50%, a fronte di una media del 26%.

Al maggior rischio di credito si aggiungono i rischi della transizione ambientale

Nonostante un evidente peggioramento, il sistema italiano di PMI ha dimostrato un elevato grado di resilienza. Gli interventi pubblici come i ristori, le moratorie e i prestiti garantiti hanno dato liquidità alle PMI, che dal 2021 hanno beneficiato delle progressive riaperture e della fase di ripresa che sta attraversando l’economia italiana.  Le analisi condotte sul Cerved Group Score indicano che la quota di PMI ad alto rischio di default ha toccato un massimo nel 2020 (al 13,4%, dal minimo dell’8,4% del 2019), con un parziale miglioramento a settembre 2021 (11,3%). Le situazioni di criticità si concentrano tra le PMI colpite in modo più intenso dalla crisi (la quota di PMI a rischio cresce al 18,6% per quelle con un calo dei ricavi di almeno il 20% tra 2020 e 2019) e nei settori che hanno subito maggiormente le conseguenze delle misure per salvaguardare la salute pubblica.

Nei prossimi mesi, le banche non potranno tuttavia limitarsi a monitorare il rischio di default delle imprese secondo i tradizionali parametri economico-finanziari.  La Banca Centrale Europea ha infatti identificato i rischi climatici tra i principali fattori da monitorare nell’ambito del Meccanismo di Vigilanza Unico europeo. Per misurare l’entità di questi rischi, Cerved ha utilizzato il proprio patrimonio di informazioni e di analytics, identificando il numero di società e il volume di debiti finanziari più sensibili ai cambiamenti climatici. È stato dimostrato che il cambiamento climatico ha impatti sull’intensificazione e l’imprevedibilità di fenomeni fisici come alluvioni e frane, che possono procurare danni agli stabilimenti produttivi e agli immobili delle PMI. Secondo le elaborazioni di Cerved, sono oltre 16 mila le PMI italiane (il 10,7%) che presentano un rischio “alto” o “molto alto” di questo tipo. Queste PMI sono indebitate per circa 26 miliardi con le banche e con gli altri finanziatori.

Un altro rischio rilevante è costituito dalla transizione verso un sistema a emissioni zero, l’impegno che si è data l’Unione Europea attraverso il green deal. Le imprese potrebbero incorrere in perdite a causa di molteplici fenomeni, come l’adozione relativamente improvvisa di politiche climatiche e ambientali incompatibili con il proprio business, o come la necessità di realizzare investimenti significativi per modificare gli impianti produttivi. Secondo la metodologia sviluppata da Cerved per misurare questi rischi, che combina aspetti settoriali con informazioni sulle singole imprese, si contano circa 17 mila PMI con un rischio di questo tipo alto o molto alto (con 50 miliardi di debiti finanziari): sono le società che con molta probabilità dovranno riconvertire la produzione per rispettare le regole sulle emissioni o per rifocalizzare il proprio business.

Questi rischi – di credito, fisico e di transizione – sono tra loro poco correlati e questo richiede di ampliare molto lo spettro dei crediti da monitorare con particolare attenzione. Incrociando le analisi svolte, il numero di PMI con almeno un rischio è molto alto (pari a 46 mila), così come il volume dei debiti finanziari presenti nei loro bilanci (104 miliardi di euro). Sono rischi di diversa natura ed entità, che richiedono politiche di protezione specifiche e in molti casi diverse rispetto a quelle tradizionali relative al rischio di default economico-finanziario, ma che comunque devono essere considerate da chi offre finanza alle PMI.

Questo processo non comporta solo una minaccia, ma anche un’opportunità. Le banche potrebbero infatti accompagnare le PMI per finanziare la riconversione, anche sfruttando le risorse del PNRR, nell’ambito del quale sono previsti 60 miliardi di euro per la transizione sostenibile.

Iniezioni di equity selettive per accelerare la crescita e aumentare la produttività

Il phasing out, la graduale uscita dall’emergenza pandemica, insieme alle ampie risorse del PNRR, offre l’opportunità per superare alcune deficienze storiche del nostro tessuto produttivo, aumentando la produttività e il tasso di crescita dell’economia italiana. È necessario che le risorse rafforzino imprese indebolite dalla crisi ma con il potenziale di creare ricchezza e occupazione e non società decotte senza prospettive.

Un recente documento del Gruppo dei 30, fornisce una guida per gestire al meglio questa fase, distinguendo le imprese in base al grado di sostenibilità economica e finanziaria. Per effetto della crisi, il legame tra sostenibilità economica (la capacità di generare ricavi superiori ai costi) e sostenibilità finanziaria (la capacità di far fronte agli impegni finanziari) è stato infatti indebolito.

Secondo il documento, il supporto pubblico si deve concentrare sulle imprese che hanno buone prospettive economiche (economically viable) ma con problemi di natura finanziaria, fornendo liquidità o capitali. Viceversa, non bisogna supportare né imprese senza prospettive economiche, che potrebbero diventare zombie firms, né quelle che hanno una struttura finanziaria robusta, che possono rivolgersi al mercato.

La monografia sviluppata nel Rapporto segue questo approccio teorico, fornendo una metodologia pratica per individuare le imprese che corrispondono ai criteri di sostenibilità economica e finanziaria e dando alcune evidenze quantitative relative al caso italiano.

In particolare, è stato elaborato uno score di sostenibilità economica (SSE) che sintetizza le prospettive economiche delle PMI. Lo score tiene conto della solidità di ogni impresa prima della pandemia e delle mutate prospettive settoriali post-pandemiche. Le imprese con buone prospettive economiche sono state definite purosangue, perché veloci e resistenti, in grado di crescere e creare occupazione. Le PMI con prospettive economiche incerte sono state definite mezzosangue, società che in determinate condizioni possono riprendere a crescere, ma con prospettive più incerte dei purosangue. Infine, le PMI economicamente non sostenibili sono state definite ronzini, perché non hanno le caratteristiche per correre, generare ricchezza e occupazione.

La sostenibilità finanziaria è stata invece sintetizzata dal Cerved Group Score 2021, che definisce la probabilità di default effettiva delle imprese e che considera anche le conseguenze della pandemia. In questo caso, gli score sono stati raggruppati in tre cluster: le PMI “sane”, quelle per cui eventuali impatti finanziari non ne minacciano la sopravvivenza sul mercato; le PMI “appesantite”, per cui il volume di debito è oltre i livelli di guardia e può avere impatti sull’operatività e infine le PMI “infortunate”, con una condizione finanziaria che può pregiudicarne la capacità di rimanere sul mercato.

Combinando queste due valutazioni, sul campione di 154 mila PMI attive nel 2020, è possibile identificare 27 mila purosangue appesantiti o infortunati che, secondo i criteri del documento del G30, sono i candidati naturali ad interventi di supporto: sono società colpite dalla pandemia, ma con un modello di business che garantisce buone prospettive. Il secondo gruppo su cui bisognerebbe valutare un intervento è quello dei 27 mila mezzosangue appesantiti o infortunati: in questo caso si deve però considerare il maggior rischio di investire in società che potrebbero comunque uscire dal mercato, date le prospettive economiche incerte. Viceversa, non bisogna intervenire sulle 92 mila PMI “sane”, che possono rivolgersi al mercato. Quanto agli 8 mila ronzini, che non hanno prospettive economiche, servono interventi di ristrutturazione più radicale o che ne accompagnino l’uscita dal mercato, riducendo i costi sociali.

Iniezioni di capitale per sterilizzare gli impatti della pandemia sul leverage potrebbero avere effetti significativi. In base ad analisi su dati di bilancio, servirebbero 21 miliardi di equity per consentire a tutte le PMI che hanno accumulato debiti di tornare sui livelli di leverage pre-Covid. Considerando gli score e le probabilità di default sottostanti, questo consentirebbe di evitare circa 4 mila default (la metà degli 8 mila attesi interrompendo del tutto i supporti), con 114 mila posti di lavoro persi in meno e 10,5 miliardi di debiti finanziari che non si trasformerebbero in crediti deteriorati.

L’analisi però evidenzia che interventi selettivi sarebbero più efficaci, ottimizzando il rapporto tra costi e benefici. Le iniezioni necessarie per salvare i purosangue appesantiti e infortunati sono quantificabili in 4,5 miliardi e consentirebbero di evitare poco meno di 2 mila default, “salvando” 55 mila addetti e crediti deteriorati per 4,7 miliardi. Con meno di un quarto delle risorse, si otterrebbe la metà dei benefici. Se oltre ai 4,5 miliardi si investissero altri 3,8 miliardi in equity per i mezzosangue, si salverebbero altre 1.400 imprese, con 37 mila addetti e 4,2 miliardi di debiti finanziari, riducendo di circa l’85% i fallimenti e i costi associati.
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