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Miserere nobis alla Roma che fu

- di: Barbara Leone
 
Miserere nobis alla Roma che fu
Quanto sei bella Roma, quanto sei bella Roma a prima sera, er Tevere te serve, er Tevere te serve da cintura, San Pietro e er Campidojo da lettiera, quanto sei bella Roma, quanto sei bella Roma a prima sera… Viene quasi da piangere a canticchiare oggi questa vecchia canzone popolare degli anni Trenta. Ispirandosi ad essa, anni e anni dopo ne scrisse una simile anche Venditti: Roma capoccia. Splendida, per carità. E però la languida vaghezza dell’originale ha un non so che di struggente. Perché Roma era così: accogliente, tranquilla, bonacciona. Sempre un po’ scomposta e impataccata, come una bellissima donna col tacco rotto e il rossetto sbavato. Ma non ci facevi caso, perché restavi comunque abbacinato dalla sua maestosità. Inutile fare la retorica di com’era bella Roma. Chiunque ci abbia vissuto negli ultimi vent’anni si rende conto di quanto sia cambiata. Non oggi, non ieri, Nemmeno lo so dire esattamente quando, ma c’è stato un momento in cui il declino è stato inarrestabile. E mentre lo scrivo e canticchio ancora quella vecchia canzone mi sanguina il cuore. Perché da non romana ho amato, ed amo, all’inverosimile questa città: l’unico posto al mondo in cui, nonostante tutto, vorrei vivere. Ma non mi capacito. Non mi capacito del degrado, dell’incuria, dell’ignoranza, della sporcizia, della violenza che questa città oramai emana in ogni angolo: dal centro storico alle periferie, non v’è quasi differenza. O davvero molto poca. E non è una violenza fatta solo di scippi, microcriminalità dilagante e illeciti vari. E’ una violenza sottile, subdola, strisciante. E’ la violenza della rassegnazione. 

Roma si sarebbe potuta salvare non diventando Capitale d’Italia

Inizialmente il mio voleva essere un divertissment sull’onda delle ultime avvilenti notizie lette qua e là, di quelle che ti auguri tanto essere fake. E invece sono tristemente e maledettamente vere. Come quella dell’imprenditore con la Maserati che ha ben pensato di schiantarsi dritto per dritto a Piazza di Spagna danneggiando gravemente la scalinata di Trinità dei Monti. O l’aberrante episodio accaduto pochi giorni fa nella storica fontana del Gianicolo, dove una coppia di vagabondi con impressionante naturalezza s’è data alle quotidiane abluzioni, con lei che si depilava le ascelle e lui che, bottiglione di vino alla mano, si faceva il bidet. E poi il far west di Termini, le folli notti di San Lorenzo, dove ultimamente un ragazzo evidentemente ubriaco si è improvvisato giavellottista lanciando un’asta di legno contro la vetrata della bellissima chiesa dell’Immacolata. Il tutto, ovviamente, tra le risate degli amici che filmavano l’eroica impresa. E ancora la malamovida di Trastevere, i tavolini selvaggi, i monopattini buttati dove capita, le triple file, gli schiamazzi, i cumuli di monnezza, i cassonetti bruciati, gli autobus rotti, la metro ogni due per tre in panne. Fino ad arrivare ai famigerati cinghiali, che poveracci non è che son calati a valle per dispetto. Ma semplicemente perché abbiamo disboscato tutto il disboscabile possibile. E’ una scatola cinesi di sfregi. E così l’iniziale divertissment si è trasformato in un miserere nobis alla Roma che fu. E che non sarà mai più. Perché l’unica cosa che possiamo fare è chiederle perdono per come l’abbiamo ridotta. Tutti, nessuno escluso. E non c’entra il sindaco x o y, proprio no. Non è una questione di colore politico, magari fosse così. Sarebbe tutto più facile, e meno doloroso. Forse Roma, parola palindroma che all’incontrario diventa amor, si sarebbe potuta salvare non diventando Capitale d’Italia. Allora sì che, probabilmente, sarebbe rimasta Città Eterna. Forte d’una storia che non conosce eguali al mondo, di un patrimonio artistico unico, di un clima generoso e di una quantità di verde straordinaria, oggi ridotta a discarica a cielo aperto. Gira se la voi gira’, di capitale qui è rimasto solo il degrado. Un oltraggio senza fine. Canta se la voi canta’, ma il tuo sipario Roma bella s’è chiuso da quel dì.
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