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La rivoluzione con la vigna (dei nonni)

- di: Barbara Bizzarri
 
“Il mio vino è un atto di rivoluzione”: così dice una viticoltrice in quel del Piemonte giunta probabilmente alla tredicesima bottiglia (levateje er vino, verrebbe da dire), altrimenti non si spiegherebbe perché abbia nominato la sua “prima vigna queer della storia”; e non perché non si possano fare gli innesti. Però i filari non sono innaffiati da lacrime e sudore di combattenti contro il patriarcato: del resto la vigna è eredità del nonno, e sembrava brutto. Quindi, più che rivoluzione, direi una gara a chi è più furbo. Perché con queste etichette appioppate da chi diceva di non volere etichette, ovvero ecosostenibile, queer, black, lgbtqwerty e via cantando, la verità è che si fanno un sacco di soldi spennando i gonzi in nome dell’ideologia. 

Ne sa qualcosa la beata fondatrice di BlackLivesMatters passata dalle pezze al didietro alle ville milionarie comprate in quei quartieri wasp che senza avviare un simile movimento vampiresco poteva ammirare col binocolo dal suo slum, o poco più su di lì. Noi al di qua dell’oceano, invece, abbiamo i “cciofani” con l’azienda di famiglia che dall’alto del loro trono hanno deciso di insegnare alla plebe come stare al mondo, anziché percorrerlo in lungo e in largo facendo i videomakers come tutti gli altri, che almeno hanno il buongusto di tacere. 

Cosa fare, si chiedono quindi gli ereditieri, oggi che la concorrenza è tanta, i soldi pochi, i francesi alitano sul collo e l’UE agita le etichette del “fa tanto male alla salute” da incollare alle bottiglie (del resto non ne fa una giusta, mica poteva emendarsi col vino)? La risposta è ovvia: buttarla sull’ideologia. Vino queer, arance inclusive, sostenibilità, greenwashing, ogni cosa è buona pur di garantirsi profitti, altrimenti molto incerti date le congiunture attuali e astrali: “La mia cantina è queer perché ha come obiettivo l’inclusione di persone che nel mondo del vino, ancora oggi, non saprebbero come sentirsi a casa. 

Donne e appartenenti al mondo Lgbtqia+: tra loro chi vuole coltivare, produrre o anche degustare del vino sentendosi a proprio agio spesso non sa dove andare”, dice querula la donzella, aggiungendo che un giorno non si dovrà più spiegare perché una vigna è queer. E nemmeno l’aria fritta, si spera. 

Parafrasando Nanni Moretti che enunciò nel 1989 una grande verità, oggi valida più che mai, si potrebbe tranquillamente affermare che col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico. “In quanto donna lesbica ora con la mia cantina queer sfido tutti gli stereotipi”, dice la genia del marketing (devo mettere un asterisco o una e rovesciata? Nel dubbio cerco di astenermi dalle scemenze). Vorrei dirle, con delicatezza e tatto dato che la rivelazione potrebbe essere traumatica, che una delle mie migliori amiche è lesbica e ciò non ha mai influito nella felice frequentazione delle cantine, dove si è sempre trovata benissimo ed io con lei dato che bere in compagnia è assai più divertente, ma poi che ne sarebbe di cotanto claim?

A questo punto è lecito aspettarsi, che so, il pomodoro lgbtq tanto per essere perculati da mane a sera, ma la volonterosa viticoltrice decide di andare fino in fondo, e parlando del suo nuovo rosato informa che “ha la capsula blu, e quindi i suoi colori e il suo design rappresentano, sotto forma di bottiglia, un ribaltamento del binarismo di genere”. Ma pensa che tenerezza, era ancora rimasta al rosa e all’azzurro: eppure che trovata, che liberazione, che rivoluzione, Robespierre starà pensando come ha potuto non avere lui questa idea geniale, la terreur era soltanto una perdita di tempo, bastavano due colori e un tappo. 

Non resta che dare il benvenuto, quindi, a un’altra pseudotraumatizzata fra i giovani di questo secolo, abituati a nutrirsi di pane e vittimerie incartate nel peterpanismo: quanto è difficile al giorno d’oggi incontrare qualche adulto, signora mia, e quanto è prevedibile che in tempi piagnoni in cui la contezza della realtà del pubblico è rasoterra siano già accorsi in massa alla cantina della nuova guru dell’inclusività, bevendosi non tanto il vino quanto grandi sorsate di marketing (e retorica). 
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