LGIM: Tensioni nel Mar Rosso, ecco perché ci dovremmo preoccupare

- di: James Carrick, Global economist di LGIM
 
Sebbene, in termini di vite e di dolore causato, quello del Mar Rosso sia un’altra catastrofe umanitaria, in termini economici quello che si sta osservando è una diffusa. Probabilmente, il fatto che i mercati non abbiamo particolarmente risentito dei conflitti tra Ucraina e Russia prima e tra Israele e Hamas, ha contribuito allo sviluppo della convinzione che, nonostante tutto, le merci riusciranno comunque ad arrivare a destinazione e che i ritardi saranno compensati dalle scorte di magazzino abbondanti o, al massimo, da una ripercussione sul prezzo di vendita.

Noi di LGIM, invece, riteniamo che si stiano sottovalutando le conseguenze nefaste per gli scambi commerciali tra Europa e Asia che la guerra agli Houthi potrebbe generare. Infatti, piuttosto che rischiare di essere attaccati lungo le coste dello Yemen, in molti hanno preferito rinunciare alla tradizionale tratta attraverso il Canale di Suez e trasferire le merci circumnavigando il continente africano, facendo aumentare vertiginosamente i costi di spedizione e le tempistiche.

Ciò che ci dovrebbe spingere a mantenere la guardia alta è che, a differenza di quello che potrebbe venire spontaneo pensare, siamo di fronte a uno shock di offerta, non di prezzo, la quale può generare reazioni a catena inaspettate. Per avere un’idea più chiara sulle possibili conseguenze, basta guardare osservare cosa è successo nel comparto automotive dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, quando la produzione di nuovi veicoli ha subito pesanti frenate a causa della mancanza di componenti. Da segnalare le problematiche riscontrate da Michelin nel reperire la gomma per gli pneumatici, di Tesla per la produzione di batterie e di Volvo, che ha dovuto fermare interi impianti. Ma anche altri mercati hanno ravvisato delle difficoltà, come l’abbigliamento, con aziende come Next che hanno comunicato che alcune tagli di determinati capi non erano più disponibili.

A questo punto viene da chiedersi se sia possibile fare delle stime su quella che potrebbe essere la contrazione osservata con il perdurare del conflitto. Per rispondere a questa domanda, noi di LGIM ci siamo affidati a dati oggettivi che prendono in considerazione le tempistiche e la capacità di carico delle navi.

Per un trasporto dall’Asia all’Europa attraverso il Canale di Suez servono 52 giorni; ciò significa che si possono fare 7 viaggi all’anno (=365/52). Lo stesso viaggio effettuato circumnavigando l’Africa richiede 68 giorni; il che significa che il numero di viaggi si riduce a 5,4 l’anno; corrispondente a un aumento del 30% delle tempistiche. Ma passare da 7 a 5,4 viaggi può essere visto anche come una riduzione del carico di merci del 23%. In conclusione, un aumento del 30% delle tempistiche di viaggio significa una contrazione dell’offerta del 23% rispetto al livello attuale, che perdurerà fino a quando il Canale di Suez non sarà nuovamente aperto. In altre parole, uno shock prolungato sulle rotte di approvvigionamento non solo ritarda le spedizioni ormai programmate, ma riduce anche la quantità di merci che possono essere spedite dall’Asia all’Europa in un dato periodo. Ne consegue che la domanda è destinata a essere considerevolmente maggiore dell’offerta, a meno che anche la produzione o le vendite non vengano ridotte del 23% (assumendo che tutte le navi vengano dirottate).

Va detto però che quello appena descritto è lo scenario peggiore, in quanto non tiene conto di alcuni fattori che possono mitigare questo shock, come il fatto che le spedizioni non sono un comparto in cui si raggiunge il pieno impiego delle risorse; quindi, è possibile spingere le navi a compiere il tragitto a una velocità maggiore e anche dirottarne altre sulla tratta Asia-Europa. Inoltre, gli agenti di mercato dovrebbero spingere affinché venga data la priorità al trasporto di merci dall’elevato valore, il che comporta che non tutti i mercati risentiranno in egual misura di questo shock. Si è calcolato che, per compensare i costi aggiuntivi visti sopra, tutte le navi dovrebbero ridurre le tempistiche del 7,5%; un obiettivo che appare realizzabile, nonostante alcune preoccupazioni circa la possibilità di fare rifornimento in Sud Africa. Per di più, quest’anno entreranno in attività nuovi mezzi di trasporto, i cui lavori per la realizzazione erano stati avviati per far fronte alla grande domanda di merci sorta con la pandemia di Covid-19.

Attualmente è impossibile capire quale tra le forze contrastanti appena presentate prevarrà; per questo è importante monitorare attentamente l’evolversi della situazione e capire, in primis, quante navi passeranno da Suez e quante da Capo di Buona Speranza; ma anche rendicontare quante imbarcazioni arriveranno nei porti Europei. Purtroppo, ad oggi, i dati di IMF Portwatch ci dicono che i venti contrari sembrano più forti, con il traffico di imbarcazioni a Suez che dovrebbe diminuire del 33% e con quello nei porti europei in calo del 16%. Se queste previsioni fossero confermate, potremmo assistere a uno shock di offerta e a un conseguente aumento dei prezzi, che al momento è stato scongiurato solo dal clima mite, che ha causato un forte calo del gas.
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