Intelligenza artificiale: dal bridge alla Biennale di Venezia. A quando al Grande fratello?

- di: Barbara Leone
 
Il grande slam della morte: forse la più famosa smazzata di bridge. Protagonisti: Bond, James Bond. E il suo avversario, il miliardario Drax. Tutti gli amanti di 007 sanno com’è andata a finire: Drax bara usando un portasigarette a specchio, e Bond gli restituisce pan per focaccia utilizzando un mazzo di carte identico a quello in gioco, ma con una smazzata già distribuita. Quadri al morto e picche ad est. Tiè! Chissà se NooK, il software di intelligenza artificiale che qualche giorno fa a Parigi ha battuto in un sol colpo ben otto campioni del mondo di bridge, avrebbe saputo farlo. Perché il bluff, purtroppo o per fortuna, l’intelligenza artificiale non lo contempla ancora. Non nel bridge, almeno, uno dei pochi giochi dove la supremazia umana aveva finora resistito all’inarrestabile marcia dei robot. Ma tant’è, hanno conquistato anche quest’ultima roccaforte e amen. Ce ne faremo una ragione. Gli esperti esultano adducendo ragioni che solo i cervelloni, quelli umani, riescono capire. Roba di numeri, algoritmi, sistemi, caratteri ibridi della macchina e diavolerie varie. Noiose ai più, un po’ come lo è anche il bridge. Che infondo è questione di combinazioni e probabilità. Qualcosa, dunque, che un’intelligenza artificiale riesce abbastanza facilmente a calcolare. Numeri, appunto. Non emozioni. 

Ai-Da Robot, l’artista umanoide ultrarealista più famosa dell’art world

Eppure i cervelloni, sempre quelli umani, ci vogliono convincere che prima o poi anche i robot saranno capaci di provarle. E così, per esempio, un gruppo di zelanti ricercatori dell’Università di Strandford hanno creato un algoritmo che sarebbe in grado di comprendere le emozioni che le opere d’arte provocano negli spettatori. Si chiama ArtEmis, ed è la prima intelligenza artificiale emotiva. Praticamente un ossimoro, perché davvero non si capisce come la parola artificiale possa andare a braccetto con la parola emotiva. Ma non solo. Proprio in questi giorni la Biennale di Venezia ospita le opere di Ai-Da Robot, l’artista umanoide ultrarealista più famosa dell’art world: così la descrivono i suoi creatori. Che a vederla, per carità, è pure caruccia: occhioni a mandorla, volto levigato (e vorrei vedè che ha pure le rughe) e caschetto alla Valentina, che pure lei di danni ne ha fatti visto che più che un fumetto ha rappresentato per anni il sogno erotico di tanti maschietti. 

La caratteristica di Ai-Da Robot, però, è che oltre ad avere braccia meccaniche per dipingere parla. E rilascia pure interviste. E, a dir la verità, si fa capire anche più di tanti artisti umani. Quelli che a domanda facile facile ti rispondono con concetti kafkiani e voli pindarici, che a riportarli su carta ti fai la croce con la mano sinistra. Lei no, è breve e concisa. Mi ispiro a tizio, grazie l’ospitalità, questo quadro rappresenta per me x, i miei progetti futuri sono y e così via. Ovviamente, ha pure una pagina social in cui interagisce con i suoi fans. Manca solo che parli di guerra e pandemia e il gioco è fatto. A quel punto ce la ritroveremo nei talk di Barbarella o, che ne so, magari al Grande fratello dove a cervelli stanno messi molto male. Sicuramente li asfalterebbe tutti. Sul suo valore artistico, però, aleggiano tanti dubbi. Perché l’arte, da che mondo e mondo, non è solo tecnica. Non è solo tratto, colore, luci ed estetica. E’ studio, ricerca, idee, immaginazione, suggestioni, turbamenti. Emozioni, appunto. E quelle nessun algoritmo potrà replicarle mai. Per fortuna.
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