Giustizia: a l’Aquila si muore per troppa fiducia

- di: Barbara Bizzarri
 
Il 30 marzo 2009, sette giorni prima del sisma che ha devastato L’Aquila, una scossa di magnitudo 4.1 fa tremare più forte la terra, uffici e Università vengono evacuati. Guido Bertolaso telefona a Daniela Stati, Assessore regionale alla Protezione Civile dell’Abruzzo. L’intercettazione è disponibile ovunque, ancora sul sito di Repubblica Tv. Bertolaso: “Senti, ti chiamerà De Bernardinis, adesso, il mio vice, al quale ho detto di fare una riunione lì a L’Aquila domani su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni. […] è più una cosa mediatica”. Stati: “Ti ringrazio, Guido. Grazie mille”. Qualche giorno fa, Il Tribunale dell’Aquila ha determinato che le vittime del crollo della Casa dello Studente sono, al pari dei criminali che hanno costruito palazzi con la sabbia, corresponsabili al 30% della loro morte, per non essere fuggite dopo le ultime due scosse, dunque i risarcimenti dovuti sono stati decurtati. "Una sentenza - ha commentato l'avvocato Maria Grazia Piccinini, madre di Ilaria Rambaldi, studentessa universitaria di Ingegneria deceduta nel condominio in via Campo di Fossa - che appare assurda, a voler esser buoni. Scopro, dopo aver atteso quasi 14 anni, che a L'Aquila erano tutti aspiranti suicidi. Una vergogna infinita attribuire colpe alle vittime, - continua l'avvocato, che è anche presidente dell’Associazione ‘Ilaria Rambaldi Onlus'- perché significa non conoscere la storia di quel sisma e gli eventi che hanno preceduto il disastro. Una ricostruzione fantasiosa, con concetti precostituiti. Erano le 3.32: dove doveva stare mia figlia, se non a dormire? A L'Aquila, dopo le prime scosse, tutti sono rientrati a casa. Non c'era un allarme, non c'era un campo dove potersi rifugiare, dove doveva andare mia figlia? Inaudito. Ma faremo ricorso”.

Una ricostruzione fantasiosa, con concetti precostituiti

Allora, chi tentò di avvertire la popolazione su un possibile forte terremoto, fu trattato come un imbecille che si divertiva a diffondere notizie false. Poi il terremoto è arrivato: 309 morti,1600 feriti, una città sventrata. E adesso, il giudizio che riconosce la corresponsabilità delle vittime perché avrebbero dovuto uscire di casa, contro le indicazioni della stessa Protezione Civile.  Domenica 23 ottobre alle 11 si terrà alla Villa Comunale dell'Aquila una manifestazione di protesta, con lo slogan 'Le vittime non hanno colpa', contro il verdetto in cui si legge che «è fondata l'eccezione di concorso di colpa delle vittime, costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile, concorso che, tenuto conto dell'affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell'edificio di resistere al sisma, per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto, può stimarsi nella misura del 30 per cento». Un ossimoro. Si afferma che i morti avevano fatto giusto affidamento sulla stabilità di un edificio in cemento armato, al quale mesi di scosse non avevano sortito alcun effetto: in pratica, è comprensibile che quei ragazzi siano rimasti in casa, però hanno sbagliato ad ascoltare i consigli degli esperti, quelli che dettano legge pur facendo disastri, e che avevano raccomandato loro di restare fra quattro pericolose mura a bere Montepulciano. Per di più, la decisione sembra ignorare le caratteristiche fondanti del concetto giuridico di colpa: in sintesi estrema, un comportamento è colposo quando si vìolano norme giuridiche, tecniche, oppure ordini di un’autorità, o quando è improntato a negligenza, imprudenza o imperizia. L’evento, per essere imputato a titolo di colpa, deve essere sempre prevedibile. Il terremoto è l’evento naturale imprevedibile per antonomasia. Di uno sciame sismico si sa quando inizia ma non quando finisce. Come si poteva prevedere che dopo le due scosse di poche ore prima, sarebbe arrivato il colpo di grazia, se per mesi la terra aveva tremato e l’edificio non aveva subito il minimo danno? Come potevano, quei ragazzi, non fidarsi delle indicazioni della Protezione Civile? Tra l’altro, gli esperti insegnano che il miglior modo per uscire indenni da un terremoto è proprio quello di rimanere in casa, accorgimenti conosciuti da chiunque viva in zone sismiche: rimanere contro un muro portante, sotto un’architrave o anche un tavolo robusto in molti casi evitano la morte. Perciò, il Tribunale dell’Aquila considera condotta incauta ciò che contribuisce a salvare vite e quello che in quei casi viene sempre sconsigliato, un comportamento da seguire. Un provvedimento paradossale, che costituisce un precedente gravissimo, accusando in pratica i cittadini di fidarsi, a sproposito, delle istituzioni. Ricordiamo bene i proclami di quel periodo: niente panico, restate a casa. I cittadini lo fanno, si fidano. Si rifugiano nelle loro abitazioni e restano lì, sotto le macerie. 

In Italia il solo esistere, il solo vivere, è un reato, ed essere italiani è una fatica improba:  dall’immortale triade pizza mafia spaghetti con cui all’estero non si stancano mai di apostrofare, che tiene duro e fa ancora la sua porca figura e concede rari motivi di orgoglio quando ti trovi in Paesi con il ketchup sulla pasta, l’ananas nella pizza, le nostre opere d’arte nei musei e fai notare loro quanto siano primitivi; alla corsa a ostacoli contro un muro di burocrazia e di indifferenza, fino al gusto di trasformare sassolini in valichi insormontabili. Ma essere italiani è ancora più duro da quando il giudice civile Monica Croci ha emesso la sentenza che dichiara colpevoli le vittime di un terremoto: colpevoli di essersi fidate di chi diceva loro di non preoccuparsi, di rimanere in casa, di “far scaricare lo sciame sismico” senza rompere le palle con sciocchi allarmismi, perché gli italiani di base devono fare questo: non disturbare, non scocciare, pagare tutto il pagabile a fronte di servizi e infrastrutture da terzo mondo, subìre in silenzio ogni tipo di vessazione e se protestano li si prende a sprangate sui denti: segno che lo spettro tanto agitato da tutti, lo spauracchio innominabile paventato all’occorrenza, liceat nobis indicare, è sempre stato qui, di qualunque foggia e colore si ammanti, ed è perfettamente riassunto dall’epitome di questo Paese, Wanna Marchi e il suo terrificante “i coglioni vanno inculati”. Per questo è stata riesumata e riabilitata, perché tutti sono d’accordo con lei. Tra Marchi e Montanelli che diceva che il popolo italico è governato dalla paura e dalla smania di avere un padrone da servire quasi non ci sono neppure sei gradi di separazione e la dimostrazione è una sentenza quantomeno discutibile, che non ha rispetto dei morti e se ne frega dei vivi. Pensatela come volete, tutti i soldi non ve li diamo: come diceva un vero grande giudice, Giovanni Falcone, bisogna seguire quelli perché muovono ogni cosa, ergo di risarcimenti dovuti neanche a parlarne. Vai a contestare, a capire, a cercare di sapere. Non se ne tirerà fuori un ragno dal buco, come sempre in questa penisola disgraziata dai mille misteri, dalle continue e reiterate ingiustizie a cui un po’ alla volta obbligano a passare davanti a testa china perché si sa, senza bisogno di dirselo, che non c’è salvezza, e la giustizia è qualcosa di astratto, che vedono in pochi e se ben ammanicati ma in quel caso non è più giustizia, è un sistema che mira a triturare e ingoiare purché non ne resti neanche uno. Che sia per una pinza nella panza, di fame, di freddo, di fiducia malriposta in questa gabbia di affetti da sindrome di Stoccolma.
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