Concertone o minestrone?

- di: Barbara Leone
 
Che noia che barba, che barba che noia. Ogni primo maggio è la solita solfa, quest’anno ancor più soporifera e stantia. Più che Concertone, un minestrone. Di quelli che, sulla carta, farebbero pure bene alla salute. Ma quando li mangi ti viene una tristezza infinita. Perché le intenzioni dello storico evento di piazza San Giovanni sarebbero anche lodevoli. Quando nel lontano 1990 Maurizio Illuminato (nome omen) lo ideò, l’obiettivo era quello di portare alla ribalta la musica indie. Quella indipendente, di protesta, che potesse da una parte traghettare messaggi sociali sul tema del lavoro, e dall’altra attirare il più pubblico più giovane. Peccato, però, che oramai da anni venga puntualmente, e inesorabilmente, propinata sempre la solita minestra riscaldata. Con tre ingredienti in croce: slogan triti e ritriti, retorica a gogò e quintalate di lezioncine sui diritti e la Costituzione. Il tutto condito da un pugno, ovviamente chiuso e alzato, di gaffe e uscite più o meno infelici. Musica indie? Non pervenuta. Perché gira che ti rigira il Concertone di piazza San Giovanni non è altro che un Sanremo in versione centro sociale, stagione primavera-estate. Con canotte bicate e jeans alla cacaiola al posto degli abiti da sera. E al posto della Ferragni la cara vecchia Ambra Angiolini. Che pure lei, a una certa, avrebbe pure stufato con quell’aria da maestrina con la penna rossa.

Sotto il palco la solita monotonia: un’emorragia bandiere del Che, fiumi di birra, qualche nuvola densa di cannone e la solita retorica del protestante in stato di agitazione permanente. Tutto a spese dei sindacati, in quella voragine oscura che non conosce nessuna verifica sui conti. E che i conti manco li paga, stando alle parole del conduttore radiofonico Marco Ardemagni che poche ore fa sulla sua pagina Facebook ha scritto: “sono passati dieci anni e ancora aspetto il saldo della fattura”. Per anni voce della trasmissione di Radio2 Caterpillar, Ardemagni ricorda come in tanti anni di carriera l’unica fattura che finora non gli è stata saldata è proprio quella del concerto organizzato dai sindacati, per di più nella giornata della Festa dei lavoratori. Ma che di più. “So che il problema del mancato pagamento ha toccato tanti altri, compresi molti che fanno lavori più duri del mio, come gli attrezzisti o i fonici, anche in edizioni precedenti, basta cercare in rete – scrive il conduttore –. Eppure i sindacati se ne sono sempre impipati, per dirla all’antica”. Dal Concertone al paliatone, insomma, è un attimo

A far da cornice ad uno degli spettacoli più ipocriti e patetici della costellazione Rai, il nulla cosmico musicale. Con la maggior parte degli artisti catapultati dall’Ariston senza manco passare per il via. Salvo rare eccezioni, come nel caso di Ligabue ieri sera che le ha metaforicamente suonate a tutti con grinta e stile, anche quest’anno il Concertone è stata la fiera della mediocrità e dell’ovvio. Musicalmente parlando, il deserto dei tartari. Un Concertone-minestrone che ha in questa attesissima (perché era la prima sotto il governo Meloni) ha fatto pure rima con acquazzone, visto che venuta giù l’ira di Dio di pioggia. Anzi, è stata lei la protagonista assoluta. E, per certi versi, è stata pure una salvata, per dirla alla romana. Con artisti e conduttori che, spesso a corto d’argomenti e parole, grazie alla pioggia avevano un poderoso argomento in più (a volte anche l’unico), adattabile a qualunque occasione. Un vero e proprio jolly, perfetto per un siparietto, intermezzo o introduzione che sia. Tra un pezzo e l’altro, tra una pubblicità di Rai 3 e una marchetta del copione, come gentiluomini inglesi, non facevano altro che commentare il tempo.

Più che il Concertone pareva d’essere alle previsioni meteo del colonnello che, munito di baffetto tremolante e farfallino a pois, ogni santa domenica ci sfrantuma i marroni con l’esperimentino e la meteocanzone. Insomma, l’acquazzone che è venuto giù per quasi tutta la durata del Concertone è stata senza ombra di dubbio la ciliegina sulla torta (sfatta e bruciacchiata) di un evento che, peraltro da tempo, ha oramai ben poco da raccontare. Una cattedrale nel deserto. Poesia pura, coi volti dei ragazzi rigati dalla pioggia che parevano lacrime. Non si sa bene se di commozione o sfinimento per un tour de force di quasi dieci ore di nulla. “Che ce ne facciamo delle parole?”, chiede provocatoriamente Ambra nel suo monologo sull’inutilità di farsi chiamare architetta o avvocata perché per le donne la cosa più importante sono i diritti. Che è un po’ come dire che chi si occupa di parole è indifferente, o peggio ancora avulso, ai fatti. E invece no. Le parole contano eccome. Come la musica. Quando mancano resta solo la pioggia. E un insopportabile minestrone utile solo per farci dormire. E andare al cesso.
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