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Tokyo dice no alle nozze gay: Giappone più isolato

- di: Bruno Legni
 
Tokyo dice no alle nozze gay: Giappone più isolato

La decisione dell’Alta corte di Tokyo conferma il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, smentisce il vento di apertura arrivato da altre corti, alimenta lo scontro tra giudici, politica e opinione pubblica e lascia il Paese unico nel G7 senza un vero riconoscimento legale delle coppie LGBTQ+.

(Foto: giovani gay asiatici).

Nei corridoi dell’Alta corte di Tokyo, il 28 novembre, è arrivata una frase che pesa come un macigno: il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso è considerato conforme alla Costituzione. Una formula asciutta, che però ha l’effetto di un brusco dietrofront in un cammino che la stessa giurisprudenza giapponese stava provando a spingere verso l’uguaglianza.

Otto cittadini giapponesi, in coppia con partner dello stesso sesso, chiedevano un risarcimento simbolico – un milione di yen ciascuno, circa 5.500 euro – sostenendo che l’esclusione dal matrimonio violi sia l’articolo 24 della Costituzione, che parla di unione fondata sul consenso “di entrambe le persone”, sia il principio di uguaglianza di fronte alla legge. L’Alta corte ha respinto il ricorso, chiarendo che quella formula, per il momento, continua a essere letta come riferimento al matrimonio eterosessuale.

Il messaggio politico è chiaro: il cambiamento, se mai ci sarà, dovrà arrivare dal Parlamento, non dai giudici. Ma mentre i tribunali si dividono, la distanza tra il Giappone e gli altri grandi Paesi industrializzati aumenta.

Tokyo frena sull’uguaglianza

La sentenza di Tokyo arriva dopo sei procedimenti paralleli avviati in diverse prefetture. In primo grado, lo stesso tribunale distrettuale della capitale, nel marzo 2024, aveva definito la situazione giapponese in uno stato di forte tensione con i principi costituzionali, pur senza arrivare a dichiarare illegittimo in sé il divieto, né ad accogliere le richieste di risarcimento.

Nel giudizio d’appello, invece, l’Alta corte ha scelto una lettura restrittiva: nessun obbligo per lo Stato a riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso, nessuna violazione diretta dei diritti fondamentali, e un richiamo alla tradizione del matrimonio tra uomo e donna come parametro implicito del sistema.

Per chi ha portato avanti la causa, il verdetto è una sconfitta amara. Uno dei legali impegnati nei ricorsi per l’uguaglianza matrimoniale ha sintetizzato così il sentimento dei ricorrenti: “Questa decisione ci dice che la nostra relazione resta invisibile per lo Stato: è come se la nostra vita fosse considerata meno degna di protezione”, ha spiegato.

Un mosaico di sentenze opposte

La decisione di Tokyo arriva, paradossalmente, dopo una serie di sentenze che sembravano andare in direzione opposta. Negli ultimi anni diversi tribunali distrettuali, da Sapporo a Nagoya, passando per Fukuoka e Sendai, avevano giudicato incostituzionale o comunque problematico il mancato riconoscimento legale delle coppie omosessuali, pur senza aprire di fatto alle nozze egualitarie.

A creare un quadro ancora più complesso sono state le pronunce delle corti d’appello. Nel marzo 2025 l’Alta corte di Osaka ha stabilito che l’assenza di matrimonio egualitario viola i diritti fondamentali, segnando la prima volta in cui un tribunale di secondo grado riconosce apertamente l’illegittimità del sistema attuale. Pochi giorni dopo, anche l’Alta corte di Nagoya ha giudicato incostituzionale il mancato riconoscimento delle nozze tra persone dello stesso sesso, rafforzando l’idea di un fronte giudiziario favorevole al cambiamento.

Fino a poche settimane fa, il quadro sembrava dunque orientato verso una progressiva pressione dei tribunali sul Parlamento. La nuova pronuncia di Tokyo, però, riporta in primo piano l’altra linea interpretativa: quella che considera il matrimonio egualitario una scelta esclusivamente politica, che il legislatore può rimandare all’infinito.

Un’analisi giuridica recente ha descritto il contenzioso sulle unioni tra persone dello stesso sesso come un lungo “gioco a ping pong” tra corti e Parlamento, in cui nessuno si assume fino in fondo la responsabilità di decidere. La sentenza dell’Alta corte della capitale, oggi, sposta ancora una volta il peso sulla politica.

Partnership simboliche e vita reale

Sul piano formale, il Giappone resta l’unico Paese del G7 a non riconoscere né il matrimonio tra persone dello stesso sesso né unioni civili equivalenti. Negli ultimi dieci anni, però, la mappa dei diritti locali è cambiata rapidamente: a partire dai quartieri di Shibuya e Setagaya, a Tokyo, sempre più comuni e prefetture hanno adottato sistemi di partnership che certificano le coppie dello stesso sesso e concedono qualche diritto in più, soprattutto su casa, ospedale e servizi sociali.

Secondo dati aggiornati all’estate 2025, più del 90% della popolazione giapponese vive oggi in aree coperte da sistemi di partnership. Il numero delle amministrazioni che li hanno introdotti è salito a oltre 520, includendo grandi città come Sapporo, Osaka, Yokohama e molte realtà più piccole.

La realtà, però, resta quella di un riconoscimento frammentato e fragile. I certificati di partnership non hanno la stessa forza del matrimonio: non garantiscono automaticamente diritti ereditari, agevolazioni fiscali o pieno riconoscimento a livello nazionale. Possono essere ignorati in altre prefetture, e non valgono nulla fuori dal Paese.

Una delle persone coinvolte nel ricorso di Tokyo ha raccontato così il paradosso: “Nel nostro quartiere siamo una coppia riconosciuta, ma basta spostarci di pochi chilometri e torniamo a essere due estranei agli occhi dello Stato”. Una “terra di mezzo” giuridica che rende più visibile la distanza con gli altri Paesi industrializzati, dove il dibattito si è ormai spostato su temi come la genitorialità o la filiazione, non più sulla semplice possibilità di sposarsi.

Politica prudente, società più avanti

La fotografia della politica giapponese non aiuta a sciogliere i nodi. Il Paese è guidato da una premier espressione dell’ala più conservatrice, che negli anni si è mostrata cauta se non scettica su una rapida apertura ai diritti LGBTQ+. Lo spazio parlamentare per un disegno di legge sul matrimonio egualitario appare limitato anche per la pressione dei partiti alla destra del Partito liberal-democratico.

Nell’estate 2025 una formazione populista e apertamente ostile ai diritti LGBTQ+ ha conquistato seggi nella Camera alta, portando in Parlamento slogan contro la cosiddetta “ideologia di genere” e contro ogni modifica della definizione tradizionale di famiglia. Questo clima politico rende più difficile trasformare in legge le spinte provenienti da tribunali e società civile.

Se si guarda fuori dal Parlamento, però, l’immagine cambia. Le principali indagini demoscopiche degli ultimi anni mostrano che il consenso verso il matrimonio tra persone dello stesso sesso oscilla intorno al 65-70%, con picchi oltre l’80% tra i giovani sotto i 30 anni. Una parte consistente dell’elettorato conservatore non vede più il matrimonio egualitario come una minaccia all’ordine sociale.

Eppure molti cittadini restano favorevoli a una forma di riconoscimento senza percepirne l’urgenza, e spesso sottovalutano l’impatto concreto dell’assenza di diritti su pensioni, eredità e assistenza sanitaria. Un’attivista per i diritti LGBTQ+ ha commentato così la sentenza di Tokyo: “La società è più avanti della politica e, a tratti, anche dei tribunali. Ma finché il Parlamento non farà un passo chiaro, continueremo a vivere in un limbo fatto di partnership simboliche e diritti negati”.

Il Giappone isolato tra i grandi del G7

Il verdetto dell’Alta corte di Tokyo ha anche una forte valenza internazionale. Mentre in Europa, in Nord America e in buona parte del mondo industrializzato il matrimonio egualitario è ormai la norma, il Giappone resta un’eccezione tra i grandi Paesi del G7: l’unico senza un riconoscimento uniforme delle coppie dello stesso sesso a livello nazionale.

Per molti osservatori, questo isolamento stride con l’immagine di un Paese tecnologicamente avanzato, globalizzato, sede di grandi aziende che nei loro codici interni parlano di diversità e inclusione. Una parte del mondo economico teme che le incertezze legali possano diventare un fattore di competitività: multinazionali che si presentano come inclusive potrebbero infatti preferire sedi in Paesi dove le famiglie dei loro dipendenti sono riconosciute senza zone grigie.

In questo quadro, la sentenza di Tokyo rischia di mandare un messaggio opposto rispetto alle aperture arrivate da altre corti: invece di un percorso graduale verso l’uguaglianza, appare l’idea di un Paese diviso in due, dove una parte dei giudici spinge per riconoscere i diritti e un’altra, oggi rappresentata dall’Alta corte della capitale, alza un argine in nome di una lettura tradizionale della Costituzione.

Un giurista che da anni studia i casi sul matrimonio egualitario in Giappone ha sintetizzato così il bivio: “La Costituzione non è scolpita nella pietra, ma vive attraverso l’interpretazione. Le corti possono usarla per allargare i diritti o per mantenerli fermi. Questa volta ha vinto la prudenza, non la parità”.

La palla torna ora, ancora una volta, alla politica. Ma con una società che spinge, un mondo economico che guarda con crescente attenzione e una giurisprudenza sempre più divisa, la scelta di non scegliere rischia di diventare, per il Giappone, la decisione più costosa.

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