Cronache dai Palazzi - Il terzo mandato diventa un problema per tutti, da destra a sinistra

- di: Redazione
 
Sono rari i casi in cui, in politica, su uno stesso argomento, tutti o quasi escono con le ossa rotte.
E' quanto sta accadendo sul ''mitico'' terzo mandato per i presidenti di Regione, sul quale Matteo Salvini sembra avere perso la sua battaglia. E quel ''sembra'' non è affatto detto per cautela. Perché, a decrittare pensieri, parole e opere che si sono manifestati in queste settimane, non è detto che poi il ''no'' al terzo mandato sia una cosa totalmente negativa per il segretario della Lega.
Il quale, seppure non ha raggiunto l'obiettivo di tenere Luca Zaia in Veneto per i prossimi anni (disinnescandolo come suo possibile antagonista alla guida del movimento e con la speranza di spedirlo a Bruxelles appena possibile), almeno ha potuto marcare, ancora una volta, il territorio nei confronti di una Giorgia Meloni ''scatenata'' nel fare riconoscere a Fratelli d'Italia il ruolo di partito guida (e sin qui ci siamo) ed egemone nella coalizione (e, pure qui, siamo nella logica), ma soprattutto titolato ad alzare il livello di richieste e ambizioni. Come quello di vedere, alla guida del Veneto un suo esponente.

Il terzo mandato diventa un problema per tutti, da destra a sinistra

La sconfitta di Salvini - che, dopo la battuta d'arresto, ha parlato di democrazia e di parlamento sovrano - sembra fare a pugni con il concetto di coalizione, anche se tutti i leader dei partiti di Destra-Centro fanno a gara a dire e ripetere che tutto va bene, che l'amore e l'armonia regnano sovrani e che questo governo andrà avanti per tutta le legislatura e anche dopo. Ma, appena poche ore dopo che, dal palco di Cagliari, la maggioranza con i suoi massimi esponenti si diceva compatta, l'emendamento leghista è stato riproposto, ben sapendo che sarebbe andato incontro ad una bocciatura.

Una riproposizione che è sembrata ormai essere l'ultima ridotta leghista davanti allo strapotere di Fratelli d'Italia e, quindi, di Giorgia Meloni. Subire la prova di forza della premier sul tema del terzo mandato per Matteo Salvini ha significano certificare un ruolo di secondo piano in una coalizione che vive, schizofrenicamente, l'unitarietà di intenti in pubblico e, nella realtà, la lotta serrata in vista delle elezioni europee e, comunque, del futuro, di medio e lungo periodo.
A Cagliari, Giorgia Meloni ha mostrato tutta la sua forza politica, ritirando fuori il suo repertorio di battute, ammiccamenti, stilettate, quasi sfottò, per irridere l'opposizione. E lo ha fatto quasi costringendo Antonio Tajani e Matteo Salvini a prendere atto che non c'è storia, dentro la maggioranza, e che quindi loro, Forza Italia e Lega, devono accettare la sussidiarietà del loro ruolo. Un atteggiamento che il presidente del Consiglio ha replicato ospite per due volte di Bruno Vespa, nell'arco della stessa serata (forse un record....), tornando a quella postura barricadera d'antan del suo modo di fare politica.

Comunque Salvini - al di là delle bordate contro il nemico di turno, sempre e comunque a sinistra - appare costretto a prendere atto delle decisioni degli alleati e quindi a ridimensionare i suoi obiettivi. Non considerando il consenso personale e di partito di Giorgia Meloni, Matteo Salvini deve anche fronteggiare sé stesso perché talvolta non si comporta come quel politico di lungo corso quale ormai è, gettandosi dentro le trappole senza che nessuno ce lo spinga. Come ha fatto in quel improvvido commento alla morte di Alexei Navalny perché, pur dicendo una cosa in fondo di buon senso (prima di condannare qualcuno, aspettiamo quel che dicono i giudici, cosa ovvia in un Paese normale, non in Russia dove il potere giudiziario è sottomesso al Cremlino), si è fermato lì, senza pronunciare una condanna morale nei confronti di chi ha perseguito con ferocia il dissidente, di fatto creando le condizioni della sua morte. Salvini, cui bisogna riconoscere coerenza, si è limitato ad una frase banale, quando forse una condanna del responsabile occulto della morte di Navalny gli sarebbe stata molto più utile.

Ma la questione del terzo mandato per i presidenti di Regione è andata per traverso anche al Pd, che sembra vivere una stagione di contraddizioni e di lacerazioni interne, che potrebbero essere anche difficili da sanare. Perché l'impressione che si è colta (dentro e fuori il partito) è che Elly Schlein, nel tentativo di creare un fronte compatto dell'opposizione, si stia facendo condizionare troppo da questo obiettivo, con scelte che appaiono troppo appiattite su quelle dei Cinque Stelle che, per come ha ripetutamente fatto capire Giuseppe Conte, ci stanno, ma non riconoscendo al Partito democratico la guida dell'alleanza.
Il timore di una parte del Pd (la consistenza diventerà palese dopo le europee) è che il vertice stia portando il partito verso una sovrapposizione sulla linea dei Cinque Stelle che, come hanno ripetutamente dimostrato, guardano ad un solo obiettivo, la primazia nell'opposizione, con il nemmeno celato sogno di riportare Giuseppe Conte a Palazzo Chigi.
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