Terrorismo: dal processo di Parigi nasca una memoria collettiva per l'Occidente
- di: Diego Minuti
Il processo, iniziato ieri a Parigi, tra imponenti misure di sicurezza, che hanno riguardato una porzione importante della capitale francese, non dovrà solo accertare quali siano e come sono distribuite le responsabilità dei venti imputati negli attentati che, nel novembre del 2015, bagnarono del sangue di 130 vittime le strade e il Bataclan. Non è solo un processo, in cui accusa e difese si daranno battaglia, come è giusto che sia, ma anche un rito che deve concludersi - la sentenza di primo grado è prevista per la prossima primavera - con il consolidamento di una memoria storica, anche se forse non condivisa, su quale sia stato il percorso degli attentatori e se in questo ci siano anche colpe di chi doveva vegliare sulla pubblica incolumità.
Ieri il processo è stato solo incardinato (con la costituzione delle parti e l'elencazione delle accuse) e, perché esso si sviluppi lungo la linea di confronto tra chi accusa e chi deve difendere, occorrerà attendere ancora del tempo. Quello necessario per perfezionare l'iter che precede il doloroso capitolo delle testimonianze, scontate sin che si vuole (il terrore e la paura sono i ''regolatori'' di tutti gli eventi tragici legati al terrorismo confessionale), alle quali seguiranno le deposizioni degli imputati. Di essi 14 sono presenti in aula (undici in stato di detenzione, tre in libertà vigilata). Gli altri sei saranno giudicati in contumacia, anche se c'è il fondato sospetto che siano morti nel ribollente catino di guerra della regione siro-irachena, culla di quello Stato islamico, dalle cui fila sono usciti mandanti ed esecutori del massacro parigino.
Il processo ha un copione già scritto ed un protagonista designato in Salah Abdeslam. L'ormai trentunenne imputato marocchino d'origine e francese di passaporto ha approfittato di ogni piega della procedura per tentare di prendersi la scena, ma ha trovato un duro ostacolo sul cammino processuale che s'era forse prefigurato nel presidente della corte, Jean-Louis Périès, che gli ha ristretto i margini di manovra, impedendogli di utilizzare ogni occasione per sottolineare cosa lui si senta.
Quando il presidente gli ha chiesto di confermare, secondo la procedura, la sua identità, Abdeslam, vestito di nero e barba salafita, ha quasi urlato ''Prima di tutto, voglio attestare che non c'è altro dio all'infuori di Allah e che Maometto è il suo profeta''. ''Lo vedremo dopo'', lo ha stoppato Périès, che ha avuto modo di mostrare la sua fermezza anche quando il principale imputato ha detto a voce molto alta, lamentandosi delle condizioni della sua reclusione: ''Mi hanno trattato come un cane per sei anni. Non mi sono lamentato per un solo motivo, perché quando morirò risorgerò''. Una frase che ha registrato la gelida replica del presidente Périès: ''Non siamo davanti ad un tribunale ecclesiastico''.
Le cronache del processo, dopo la spasmodica attesa di queste ore, con lo svilupparsi del calendario delle udienze, è destinato a calare nell'attenzione generale. Accade sempre così, anche se questa volta le premesse sono diverse perché il processo, oltre alle finalità di giustizia, deve cercare delle risposte non solo nell'elencazione delle prove, nelle deposizioni dei testimoni e nelle dichiarazioni degli imputati. Perché ci sono degli interrogativi che riguardano cosa di questo processo deve restare nelle società occidentali così duramente colpite dal terrorismo confessionale.
Forse meglio di tante ipotesi o risposte, spiegano le parole di Francois Molins, capo della procura di Parigi all'epoca degli attentati. Per lui il processo, oltre alle sue finalità di giustizia, deve contribuire a ''partecipare alla costruzione di una memoria collettiva, sia a livello nazionale che anche europeo, poiché sono i nostri valori condivisi ad essere attaccati da questo terrorismo indiscriminato, da queste spaventose uccisioni''.