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Ucraina, il peso del Donbass e la stasi diplomatica

- di: Matteo Borrelli
 
Ucraina, il peso del Donbass e la stasi diplomatica

L’intervento di Viktor Orbán al pre-vertice dei Patrioti non è passato inosservato. Il primo ministro ungherese, con il suo consueto pragmatismo spinto, ha definito il cosiddetto "piano di pace" come un’offerta da prendere o lasciare: semplice, umano, lontano dalla "burocrazia" che avvolge spesso i negoziati. Un’affermazione che, dietro la patina della conciliazione, cela una netta presa di posizione nella dialettica sempre più polarizzata attorno alla guerra in Ucraina.

Ucraina, il peso del Donbass e la stasi diplomatica

Dall’altra parte, le parole del presidente ucraino Volodymyr Zelensky “Non abbiamo forze per riprenderci il Donbass” – suonano come un’ammissione che pochi avrebbero immaginato di sentire in un momento in cui la retorica della resistenza continua a essere il cuore pulsante della comunicazione di Kiev. Ma questa dichiarazione non è semplicemente una constatazione militare; è il riflesso di un conflitto che si è incancrenito in una guerra di posizione, dove le forze ucraine, dopo i successi iniziali, sembrano ora incapaci di ribaltare l’equilibrio strategico imposto da Mosca.

Il Donbass, cuore industriale e simbolico dell’est ucraino, rappresenta molto più di una regione contesa. È il terreno su cui si gioca la credibilità geopolitica dell’Europa, la sfida all’egemonia russa e il futuro stesso di un’Ucraina che, per quanto sostenuta economicamente e militarmente dall’Occidente, paga un prezzo altissimo in vite umane e in stabilità interna.

Un conflitto congelato nei fatti

Le dichiarazioni di Putin – “Ci avviciniamo ai nostri obiettivi primari” – raccontano una verità parziale. L’invasione non ha portato a un rovesciamento rapido del governo ucraino, né ha consolidato l’influenza russa sul territorio quanto il Cremlino sperava. Eppure, la stasi attuale favorisce Mosca, che può continuare a esercitare pressioni su Kiev e sull’Occidente mentre mantiene il controllo di aree strategiche.

Il problema fondamentale, però, è che nessuno degli attori principali sembra disposto a fare il primo passo verso una pace negoziata. Zelensky non può permettersi concessioni territoriali che equivarrebbero a una sconfitta politica, mentre Putin, forte del controllo sul terreno, gioca una partita a lungo termine. Orbán, con la sua posizione ambigua e il suo richiamo a una soluzione "umana", non fa che sottolineare l’impotenza diplomatica europea, divisa tra il sostegno militare all’Ucraina e la paura di un conflitto prolungato alle porte del continente.

L'Occidente tra idealismo e pragmatismo

A Bruxelles, intanto, la posizione occidentale sembra oscillare tra il sostegno incondizionato e la crescente pressione per una via diplomatica. La realtà è che ogni piano di pace che non contempli una piena sovranità ucraina sul Donbass sarà difficile da accettare per Kiev e rischia di trasformarsi in una vittoria strategica per Mosca.

Il piano di Orbán, con il suo richiamo alla semplicità e all’umanità, non è che un artificio retorico. Dietro le parole, si nasconde l’accettazione implicita di uno status quo che congeli il conflitto senza risolverlo. Un approccio che, nella migliore delle ipotesi, allontanerebbe temporaneamente il rischio di una nuova escalation, ma che, nella peggiore, getterebbe le basi per un futuro di instabilità cronica nella regione.

Il Donbass non è soltanto un campo di battaglia; è il simbolo di un mondo che lotta per ridefinire i propri equilibri. In questo scenario, le parole di Orbán e Zelensky sono due facce della stessa medaglia: la realpolitik che cerca di adattarsi alla realtà e il sacrificio di una nazione che continua a sperare in una vittoria che sembra sempre più distante.

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