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Stipendi pubblici, la Consulta abbatte il tetto dei 240mila euro: “Il limite è incostituzionale”

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Stipendi pubblici, la Consulta abbatte il tetto dei 240mila euro: “Il limite è incostituzionale”

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il tetto massimo di 240mila euro annui previsto per gli stipendi dei dipendenti pubblici, stabilito dalla legge 89 del 2014. La pronuncia, arrivata con la sentenza n. 138 depositata il 26 luglio 2025, ha ritenuto che il vincolo retributivo non possa essere applicato automaticamente in modo generalizzato e senza una valutazione del ruolo, delle funzioni e delle responsabilità del soggetto interessato. La Consulta ha accolto una questione sollevata dalla Corte dei conti in merito alla posizione di un avvocato dello Stato che riteneva ingiustificata la compressione della propria retribuzione rispetto alle funzioni svolte.

Stipendi pubblici, la Consulta abbatte il tetto dei 240mila euro: “Il limite è incostituzionale”

Nella motivazione si sottolinea che il principio di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, sancito dall’articolo 97 della Costituzione, non può essere garantito con un criterio retributivo rigido e uniforme, valido per ogni posizione. Il limite generalizzato di 240mila euro – introdotto per ragioni di contenimento della spesa pubblica e come simbolo di equità – è stato considerato sproporzionato rispetto alla complessità di alcune figure apicali. La Corte ha rilevato una violazione del principio di uguaglianza (articolo 3 della Costituzione) e del principio di adeguatezza delle retribuzioni (articolo 36), sottolineando che l’unico criterio legittimo è quello meritocratico, tarato sulle specifiche funzioni e responsabilità.

Gli effetti della decisione
La pronuncia della Consulta avrà effetto immediato e porterà con ogni probabilità a una revisione del sistema retributivo per le alte cariche della pubblica amministrazione. Ministeri, autorità indipendenti, enti pubblici e organismi di controllo potranno riconoscere compensi superiori al tetto, purché motivati in relazione alla natura e al grado delle funzioni svolte. Resta salva la discrezionalità del legislatore nel definire criteri selettivi e trasparenti per le retribuzioni pubbliche, ma d’ora in avanti non potrà più essere utilizzato un limite fisso e generalizzato come strumento ordinario.

La reazione politica e sindacale
Il pronunciamento ha subito acceso il dibattito tra forze politiche e sindacati. Alcuni esponenti della maggioranza lo hanno salutato come un riconoscimento della professionalità dei dirigenti pubblici, penalizzati da una normativa che non teneva conto delle loro responsabilità. Le opposizioni, invece, hanno criticato la decisione parlando di “un regalo alle élite burocratiche” in un momento in cui il Paese affronta ancora squilibri sociali e crisi economica. I sindacati del comparto pubblico hanno chiesto che la sentenza non sia strumentalizzata per creare nuove disparità salariali, ma venga usata per riformare l’intero sistema retributivo della pubblica amministrazione, superando gli automatismi e introducendo valutazioni più precise sulla produttività.

Un precedente destinato a pesare
La decisione della Consulta rappresenta un precedente importante e potenzialmente estensibile anche ad altri settori della PA. In particolare, potrebbe riaprire la questione dei compensi per magistrati, diplomatici, dirigenti generali e membri delle authority. La Corte ha tracciato un confine chiaro: contenere la spesa è legittimo, ma non a scapito dell’equilibrio costituzionale tra efficienza, merito e retribuzione. La sentenza impone ora al legislatore di ripensare l’intero impianto normativo sulle retribuzioni pubbliche, tenendo insieme rigore finanziario e riconoscimento delle competenze.

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