Niente di più facile: per sconfiggere l'antisemitismo nel calcio basta vietare una maglietta

- di: Bianca Balvani
 
Nella foto,  il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi

Confessiamolo, per una volta, senza che questo divenga un modo per incensarci: quando ci impegniamo, siamo veramente bravi a trovare soluzioni per problemi che, per altri, sono stati irrisolvibili. La Storia è tale, senza ''se'' o ''ma'', eppure è gratificante pensare che, se all'ingegno italico fosse stato chiesto, agli inizi degli anni '30 del secolo scorso, come fermare la deriva anti-semita della Germania nazista, che portò all'olocausto, la soluzione l'avremmo trovata in quattro e quattr'otto, evitando all'umanità di assistere ad un genocidio, che si abbatté non solo sugli ebrei, ma contro tutti coloro che non rientravano nel modello del ''perfetto ariano''. Dai malati di mente, agli zingari (o tzigani o rom, chiamateli come volete, fecero anch'essi una brutta fine), ai gay, ma anche ai dissenti e ai cattolici.
Se qualcuno ce lo avesse chiesto l'avremmo detto subito: basta vietare che qualcuno, durante una partita di calcio ufficiale, indossi una maglietta con il numero 88.

Niente di più facile: per sconfiggere l'antisemitismo nel calcio basta vietare una maglietta

E perché mai, di grazia? Perché anche nell'alfabeto tedesco l'ottava lettera è l'h. Cioè la stessa iniziale di Hitler e se, di h ce ne sono due, significa che la prima è l'iniziale di ''heil''. Quindi, 88, per chi ne capisce, significa ricordare il saluto che i nazisti indirizzavano per glorificare il loro fuhrer, 'Heil Hitler'.
Ma noi, che di ingegno ne abbiamo in quantità industriale, laddove gli altri hanno speso tantissimo (sotto tutti i punti di vista) abbiamo facilmente trovato il graal, la pietra filosofale, il fuoco greco della lotta all'antisemitismo che, con frequenza, torna a manifestarsi nei nostri stadi in occasioni di partite di calcio.

Quindi piuttosto che mettere in atto politiche veramente repressive di questo degradante fenomeno, noi in Italia facciamo riunioni, elaboriamo scenari e strategie e poi partoriamo la grandiosa idea dell' ''ammazza l'88'', vietando che questo numero compaia sulle magliette dei calciatori.
Credendo, quindi, veramente, che da sola questa misura segherà alla base la malapianta dell'antisemitismo, facendo dell'Italia il battistrada mondiale.
Poi, ad esempio, si potrebbe modificare la numerazione civica cancellando l'88 e passando direttamente dall'87 all'89; negli sport con punteggi altri, come il basket, si dovrebbe modificare l'apparecchiatura elettronica (a cominciare dai tabelloni) per non consentire di mostrare il numero demoniaco; nelle apparecchiature medicali, tipo lo sfigmomanometro (quello che misura la pressione), si potrebbe creare un gradino tecnologico per evitare che possa mostrare un livello che cada appunto sull'88.

Potremmo andare avanti per chissà quanto. Ma è meglio fermarsi, perché il rischio che si corre è quello di buttare in burletta un problema che invece è serissimo. Hannah Arendt, descrivendo le fasi del processo ad Adolf Eichmann, parlò di come il male spesso si celi dietro la routine, dietro un'apparenza di normalità, quella ''banalità'' che è ormai assurto a concetto riconosciuto. Agli inizi degli anni '90 arrivò in Italia un calciatore olandese, Aron Winter, che divise la sua carriera da noi tra Lazio e Inter. Contro di lui si scatenò la feroce contestazione di frange di estrema destra della tifoseria. Il motivo di quell'odio è la summa della stupidaggine di chi l'alimentò sulla base di due concetti che, a detta dei paladini del razzismo, la giustificavano ampiamente: il nome, Aron, lo stesso del fratello e braccio destro di Mosè, quindi inequivocabilmente di radice ebraica; il colore della pelle non veramente ''nera'' (Winter è originario del Surname), ma certo non ''bianca''.
Ecco, noi andiamo a combattere la guerra contro l'antisemitismo impugnando una spada di stagnola, piuttosto che la scimitarra. E invece celebriamo questo risultato come se fosse la sconfitta definitiva contro questa distorsione della mente. In fondo, ci basta poco per dire di essere felici.
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