La piazza che ieri pomeriggio si è convocata a Roma a piazza Santi Apostoli, si è riempita lentamente, con l’aria delle occasioni civiche più che delle mobilitazioni di bandiera. Prima piccoli gruppi, poi un flusso più compatto. Quando Sigfrido Ranucci è arrivato, gli applausi sono partiti senza bisogno di megafoni.
La piazza per Ranucci, tra applausi e memoria corta
Non c’erano slogan aggressivi, né manifesti militanti: c’era l’idea, quasi fisica, che quella presenza servisse a segnare un confine. La difesa di un giornalismo che continua a fare domande senza chiedere permesso al potere.
Una piazza insolita
A colpire, più dei numeri, era la composizione del pubblico. Non solo attivisti, non solo associazioni, non solo volti tradizionali della sinistra: c’erano cittadini che normalmente non frequentano questo tipo di iniziative, professionisti, studenti, perfino elettori che negli anni scorsi avevano espresso distacco o fastidio verso Report. È stata la prima, evidente, incrinatura dello schema abituale: stavolta la libertà di informazione non è apparsa come una “bandiera di parte”, ma come un presidio collettivo. Una sorta di tregua politica intorno a un principio.
La presenza dei “convertiti”
Poi le prime file: esponenti politici di area liberal-progressista, certo, ma anche figure di quell’area moderata che in passato non avevano esitato ad attaccare le inchieste televisive quando toccavano il proprio schieramento. Nessuno lo ha detto apertamente, ma la scena parlava da sola: difendere la stampa è improvvisamente tornato più conveniente che ignorarla, e forse anche più necessario che comodo. La piazza ha avuto il merito di rendere visibile ciò che nelle sedi istituzionali resta spesso implicito.
Ranucci come figura-specchio
Sul palco, Ranucci non ha assunto il ruolo dell’icona perseguitata. Ha parlato poco, con sobrietà. Ha ricordato che il mestiere dell’inchiesta è andare dove le versioni ufficiali non arrivano, e che questo mestiere sopravvive solo se la società riconosce la sua utilità anche quando non conviene. Non c’era vittimismo nel suo tono, ma lucidità: il punto non è proteggere un giornalista, ma preservare uno spazio, quello che separa la critica dalla sanzione.
Una manifestazione civile, più che ideologica
La piazza è stata composta, quasi “istituzionale” nel comportamento. Nessun assedio verbale, nessuna polarizzazione artificiale. A prevalere era un principio elementare: la libertà di informazione non è un premio, è un argine. I presenti non difendevano un nome, ma una funzione. È probabilmente questa trasversalità – insolita e per certi aspetti sorprendente – ad aver fatto emergere il carattere bipartisan dell’appoggio: non per affinità politica, ma per istinto democratico.
Le contraddizioni che restano
Naturalmente, il rovescio non è scomparso. Chi ieri accusava l’inchiesta di “faziosità”, oggi alza il vessillo della trasparenza. Ma la democrazia italiana vive anche di queste capriole, dove il fastidio si converte in principio ogni volta che la pressione pubblica diventa più forte del calcolo partitico. La scena di ieri ha reso visibile una verità semplice: tutti rivendicano la libertà di stampa quando rischiano di averne bisogno.
Un promemoria più che una protesta
La piazza si è dissolta lentamente, con lo stesso passo sobrio con cui si era formata. Non un atto di vittimismo collettivo, non una resa dei conti: un promemoria civico. La difesa del giornalismo, ieri, ha attraversato confini elettorali e appartenenze. Resta da capire se questa solidarietà durerà anche quando l’inchiesta tornerà a infastidire qualcuno dei presenti. È lì – non sul palco – che si misura davvero la libertà di stampa in un Paese.