Rai: il primo atto di Fuortes è contestare il disavanzo dell'azienda
- di: Diego Minuti
Prima la sorpresa, poi la risata, quindi il ditino teso e la frase che ha reso famoso lo sconosciuto bambino che, nella fiaba di Hans Christian Andersen, dice con il candore dei suoi pochi anni che ''il re è nudo'', mentre tutti gli altri sudditi magnificano, per timore, la bellezza di un abito inesistente. Parrebbero improntate a questo, al di là di poche eccezioni, le prime reazioni ufficiali alle dure parole con le quali il nuovo amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, ha presentato il suo piano, prendendo spunto dal giudizio fortemente negativo espresso sul disavanzo da 57 milioni di euro per l'azienda di servizio pubblico, che gode del canone e, quando serve, dell'aiuto dello Stato.
E la nudità è quella di una situazione che era evidente, sotto gli occhi da tutti da molto tempo, ma sulla quale nessuno se l'era sentita di intervenire, per timore di inimicarsi i partiti che, a turno, si sono seduti a banchettare sulle rendite di posizione ottenute grazie alla più grande azienda culturale del Paese (usiamo il termine ''culturale'' perché non ne abbiamo altri più efficaci a portata di mano).
La Rai, non lo diciamo per primi, è malata nel senso che da essa, per le enormi risorse che divora annualmente (per giustificare produzioni e presenza sul territorio, oltre ad una elefantiaca macchina amministrativa), ci si dovrebbe aspettare ben altro prodotto che non quello degli ultimi trent'anni, caratterizzati dalla ricorsa dei modelli della televisione commerciale che non ha nessun contratto di servizio con lo Stato e, quindi, nessun obbligo trasmettere questo piuttosto che quello.
Una azienda pubblica che oggi è sembrata essere diretta con logiche che sfuggono a quell'idea che ci si era fatta quando, appena creata, aveva partecipato allo sforzo nazionale per accompagnare il Paese nella delicata uscita dalla fase del secondo dopoguerra, dove tutto appariva difficile, dove tutto si doveva conquistare e niente ti veniva regalato.
Ma il passare degli anni ha rafforzato la presa ferrea dei partiti sulla Rai e questo, al di là di eccellenze professionali universalmente riconosciute, ne ha condizionato gli indirizzi interrompendo quel circuito virtuoso che dovrebbe aiutare la gente a crescere socialmente, grazie anche ad una crescita culturale.
Ora la cultura sembra essere sparita dai palinsesti della Rai. In realtà non è così, ma il prodotto culturale annega in trasmissioni fotocopia di quelle delle tv commerciali e questo non è mai un bene. E così buoni giornalisti sono costretti, forse anche controvoglia, a parlare per settimane di casi umani che rasentano l'ossessione se non il ridicolo.
È questo il servizio pubblico? È servire, quotidianamente, un vassoio di rapimenti, scannamenti, violenze sessuali, casi umani esibiti come fossero freaks? È scegliere non tra i migliori, ma tra quelli politicamente spendibili o il cui utilizzo è un omaggio al potente di turno?
È servizio pubblico quello che, parliamo di sport, si sveglia solo una volta all'anno in occasione del Giro d'Italia?
Non dovrebbe essere così, come - sapendo da tempo di potere trasmettere molte ore al giorno di riprese delle Olimpiadi - non è accettabile ascoltare alcune telecronache da film dell'orrore, con il giornalista che non riesce a commentare nemmeno quello che vede per totale non conoscenza di quello sport?
Queste cose - ma definiamole defaillances, per come meritano - non dovrebbero accadere e così il telespettatore medio gode nel vedere il peggio della cronaca esibito come fosse un trofeo, mentre chi cerca qualcosa che non sia il racconto del peggio brancola nella nebbia, ricorrendo, se può, a canali a pagamento dove un concerto, una rappresentazione lirica, un bellissimo documentario non solo l'eccezione.