Ha cominciato Giuseppe Conte, con le solitarie dirette social a tardissima ora, consigliato evidentemente dai suoi guru della comunicazione, forse convinti che parlare, proclamare, stigmatizzare, persino minacciare il nemico di turno non avesse bisogno di un giornalista che alzasse il dito per dire: posso fare una domanda?
Anche Giorgia Meloni sembra preferire questo modo di rapportarsi alla gente, con lunghi e meno lunghi interventi sui social, parlando delle cose che più le stanno a cuore e che, logicamente, non contemplano argomenti, fatti o persone che possono crearle qualche problema.
È una forma di comunicazione monodirezionale, dal vertice alla base, che per sua natura è una esposizione, ma non una base ideologica o politica su cui confrontarsi. Per dirla tutta, per silenziare le critiche non si mettono i potenziali interlocutori nelle condizioni di muoverle.
La politica non sfugga al confronto con la stampa
Sono cose che, ammettiamolo non certo con gioia, accadono solo in Italia e in quei Paesi in cui il potere assume vesti ''muscolari'', una condizione che non contempla le critiche o anche solo le domande.
Questo, a dirla tutta, è uno stravolgimento del rapporto tra il potere e l'opinione pubblica, che da parte sua ha il diritto di pensarla in modo diverso da chi ci guida, ma anche di potere esprimere le sue idee, grazie alla mediazione della stampa, più o meno libera.
Se ci si limitasse a prendere appunti su quel che dice il potente di giornata, sarebbe tutto più facile perché le domande scomode, restando inespresse, non creano problemi di sorta e quindi il giornalista si dovrebbe limitare a riportare tesi altrui, senza doversi perdere in analisti e proiezioni.
Eppure, l'interlocuzione tra chi siede ai due opposti di un tavolo è la base della democrazia, se le idee dell'uno sono rispettate dall'altro.
Ma se si parla da soli, davanti ad una telecamera, scegliendo pause ed espressioni, si fa il peggior servizio a sé stessi, dando l'impressione di non accettare il contraddittorio o anche soltanto l'ipotesi di una idea non omologata a quella del potere.
Il problema è che, tutti, alla fine, abbiamo la memoria corta. Ma se, ad esempio, continueremo ad accettare l'idea che i politici comunicano, ma non rispondono, non potremmo essere testimoni, come lo sono stati coloro un po' avanti negli anni, di come una domanda, fatta da un giornalista e alla quale si decise di rispondere, ha cambiato, almeno in parte, la Storia.
Come quella che, nel corso di una tempestosa conferenza stampa, fatta da funzionari della DDR, fece il giornalista Riccardo Ehrman, corrispondente da Berlino dell'Ansa. Il 9 novembre del 1989, Gunter Schabowski, uno dei massimi esponenti del governo della DDR, stava parlando delle tumultuose vicende di quei giorni, quando si sentì fare da Ehrman una domanda semplice semplice, ma anche un capolavoro di arguzia.
''Non crede che sia stato un grande errore quello di annunciare, poche settimane fa, una legge di viaggio che non era tale?'', chiese il giornalista facendo riferimento ad un accenno di apertura per gli spostamenti dei cittadini della Germania Est. Il funzionario rispose, tra mille tentennamenti, ''I tedeschi dell'est possono espatriare senza spiegazioni''.
Senza un contraddittorio, Riccardo Ehrman non avrebbe potuto chiedere: ''Vale anche per Berlino Ovest'' e, al sì di Schabowski, incalzare ''Da quando?''.
Il funzionario, dopo avere compulsato nervosamente un foglietto d'appunti, disse ''sicuramente da questo momento'', dando il via alla cancellazione del Muro come invalicabile confine. Il resto fa parte della Storia.