Netanyahu e il mandato d'arresto: geopolitica di un terremoto giudiziario
- di: Cristina Volpe Rinonapoli
Il mandato d'arresto internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant non è solo una decisione giudiziaria: è un sisma politico che scuote le fondamenta della geopolitica globale. Questa vicenda non si limita alla persona di Netanyahu, ma parla della fragilità del diritto internazionale, della polarizzazione dell'ordine mondiale e di come il conflitto israelo-palestinese sia il campo di battaglia di forze ben più grandi.
Il fronte europeo: tra alleanze e ambiguità
In Europa, il mandato ha creato una spaccatura evidente. Mentre Paesi come l’Olanda si dicono pronti a rispettare le direttive della CPI, altri, come l’Ungheria di Viktor Orbán, ribadiscono la loro lealtà politica a Netanyahu, sfidando apertamente l’ordine della Corte. Orbán ha persino invitato Netanyahu a Budapest, rendendo l’Ungheria una sorta di rifugio sicuro nel cuore dell’Unione Europea.
L’Italia si trova nel mezzo di questa disputa. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha ribadito l’obbligo di rispettare il mandato se Netanyahu mettesse piede in Italia, ma il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha lasciato intendere che ogni decisione sarebbe presa consultandosi con gli alleati. Un equilibrio precario che riflette il doppio binario della politica estera italiana: un piede nel campo del diritto internazionale e l’altro nell’arena delle relazioni bilaterali.
Israele, l'assedio simbolico
In Israele, la reazione è stata feroce. Il governo ha bollato il mandato come "antisemita", e persino l’opposizione, solitamente critica verso Netanyahu, ha difeso la sua posizione. In un clima di guerra, l’intera nazione sembra stringersi attorno al suo leader, nonostante le ombre delle accuse. È una dinamica che conosciamo bene: il pericolo esterno rafforza il consenso interno, specie quando il conflitto con Hamas continua a essere percepito come una questione di sopravvivenza nazionale.
Gli Stati Uniti e la doppia morale
Washington ha respinto con decisione il mandato della CPI, dichiarando che la Corte non ha giurisdizione su Israele. Gli Stati Uniti, da sempre garanti della sicurezza israeliana, non possono permettersi una rottura con uno dei loro alleati chiave in Medio Oriente. Ma questa posizione solleva una questione più ampia: fino a che punto la giustizia internazionale è davvero universale, e dove invece diventa strumento di potere nelle mani delle superpotenze?
Un ordine mondiale diviso
Le reazioni globali riflettono un mondo sempre più frammentato. La Cina chiede "neutralità" alla CPI, mentre l’Iran celebra il mandato come l’inizio della "fine politica" di Israele. Il conflitto israelo-palestinese, ancora una volta, si trasforma in un simbolo delle divisioni planetarie: da una parte l’Occidente, che protegge Israele, dall’altra un blocco emergente di Paesi che vede nella decisione della Corte un’opportunità per ridefinire gli equilibri internazionali.
La fragilità del diritto internazionale
Questa vicenda ci ricorda che la giustizia internazionale è potente solo quanto la volontà politica che la sostiene. La CPI può emettere mandati, ma senza l'appoggio degli Stati che dovrebbero eseguirli, rimane una tigre di carta. Netanyahu probabilmente non verrà mai arrestato, ma il mandato segna un precedente importante. È un messaggio: nessun leader, nemmeno quello di uno Stato potente come Israele, è immune da responsabilità.
Nel frattempo, il Medio Oriente resta in bilico, e con esso il fragile equilibrio del mondo. Netanyahu, oggi più che mai, è il simbolo di una battaglia che non è solo giuridica, ma profondamente politica.
Possibili scenari: il diritto contro la realpolitik
La decisione della CPI apre scenari che oscillano tra la giustizia e la realpolitik. Se Netanyahu decidesse di viaggiare, ogni Paese che aderisce alla Corte sarebbe teoricamente obbligato ad arrestarlo. Ma è facile immaginare che molte capitali preferirebbero chiudere un occhio, piuttosto che affrontare una crisi diplomatica con Israele.
Uno scenario particolarmente delicato riguarda la possibilità che il premier israeliano venga invitato a incontri internazionali. L’accoglienza in Paesi alleati, come l’Italia o la Francia, potrebbe trasformarsi in un boomerang per le leadership europee, spingendole a scegliere tra il rispetto del diritto internazionale e il pragmatismo politico.
Un'altra ipotesi, meno probabile ma non impossibile, è che il mandato rafforzi il sostegno interno a Netanyahu, spingendolo a usare il proprio isolamento internazionale come strumento di propaganda. "Il mondo è contro di noi, ma noi resisteremo", potrebbe essere il messaggio che galvanizzerà l’opinione pubblica israeliana.
E poi c'è l'ipotesi più cupa: che la decisione della CPI, piuttosto che dissuadere, radicalizzi le posizioni. In un Medio Oriente già incendiato, il mandato potrebbe essere percepito come una legittimazione della narrativa di chi vede Israele come uno Stato sotto assedio.
L'ultimo scenario, remoto ma non irrealistico, è che Netanyahu cerchi di ribaltare la situazione con una mossa diplomatica a sorpresa: una proposta di negoziato, una concessione strategica che costringerebbe la comunità internazionale a riconsiderare la sua posizione. Sarebbe un gioco rischioso, ma Netanyahu è un politico che ha sempre saputo muoversi tra i margini della storia.
Per ora, resta l’incognita su chi uscirà vincitore da questa partita. La giustizia internazionale ha lanciato il suo guanto di sfida, ma è ancora presto per dire se i grandi del mondo saranno disposti a raccoglierlo.