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Myanmar (Birmania) al voto sotto le armi: l’urna che divide il Paese

- di: Marta Giannoni
 
Myanmar (Birmania) al voto sotto le armi: l’urna che divide il Paese
Myanmar al voto sotto le armi: elezioni a tappe e guerra civile
Elezioni a tappe fino al 25 gennaio, opposizioni spazzate via e guerra civile: per l’Onu è una messa in scena, per la giunta la prova di forza che vale una legittimità.

(Foto: Min Aung Hlaing, generale e capo della giunta militare del Myanmar).

Il ritorno alle urne, ma con il fiato dei fucili sul collo

Cinque anni dopo il colpo di Stato che ha capovolto l’esperimento democratico nato nel decennio precedente, il Myanmar è tornato a votare. Ma è un voto che assomiglia più a un test di controllo del territorio che a una competizione politica: consultazione scaglionata per “ragioni di sicurezza”, collegi esclusi perché inaccessibili, liste filtrate e opposizioni storiche azzerate.

A dominare la scena resta la figura del generale Min Aung Hlaing, leader del potere militare, mentre Aung San Suu Kyi – volto simbolo della transizione e premio Nobel per la Pace – è ancora detenuta e la sua formazione, la Lega nazionale per la democrazia, è stata messa fuori gioco.

Il voto a fasi: calendario e geografia della paura

La giunta ha scelto una formula “a tappe”: si vota in più tornate, area per area, fino al 25 gennaio. La motivazione ufficiale è la sicurezza. Quella reale, dicono molti osservatori, è la fotografia di un Paese frantumato, dove vaste zone sono contese o controllate da forze di resistenza e organizzazioni armate etniche.

Il risultato è che l’urna non arriva ovunque. Tra i territori colpiti dal conflitto e le aree in cui l’amministrazione centrale non riesce a garantire seggi e trasporti, una parte significativa dell’elettorato resta esclusa. E anche dove si vota, il clima è spesso di tensione: militari, posti di blocco, norme speciali e un messaggio implicito che pesa più dei manifesti elettorali.

Partiti in vetrina, competizione in retromarcia

Sulla carta, la consultazione presenta decine di partiti. Nella sostanza, il campo è stato ripulito dalle forze più competitive: molte sigle legate alle opposizioni o ai movimenti democratici sono state sciolte o rese ineleggibili. La conseguenza è un’offerta politica che appare larga, ma poco contendibile.

Al centro c’è l’USDP (Union Solidarity and Development Party), la formazione considerata più vicina ai militari, data da numerose analisi come favorita proprio perché corre in una corsa senza veri rivali nazionali. L’impressione, raccolta anche tra osservatori regionali, è che l’operazione serva a produrre un Parlamento “presentabile” e una catena istituzionale in grado di incoronare un presidente scelto dentro un perimetro controllato.

La condanna internazionale: Onu e diritti sotto assedio

Da mesi, la comunità internazionale più critica descrive le elezioni come un tentativo di verniciare l’autoritarismo. Il relatore speciale Onu per i diritti umani in Myanmar, Tom Andrews, ha avvertito che non si può parlare di voto credibile in un contesto di violenza, repressione e leader politici incarcerati.

"Non può essere libero né giusto quando la politica si fa in prigione e sotto la minaccia delle armi."

Il punto è doppio: da un lato la libertà di scelta (chi può candidarsi, chi può fare campagna, chi può informare); dall’altro la libertà di parola. Negli ultimi mesi ha fatto discutere una normativa che prevede pene molto dure contro proteste e azioni ritenute “disturbatrici” del processo elettorale, con effetti immediati su attivisti e giornalisti.

Asean divisa e il gioco degli osservatori “amici”

La partita diplomatica è delicata. L’Asean, l’organizzazione regionale del Sud-est asiatico, resta formalmente la casa del Myanmar, ma da tempo ha isolato la giunta dalle riunioni di vertice. L’idea di inviare osservatori, in questo quadro, è diventata un terreno scivoloso: il rischio – secondo diversi critici – è offrire un timbro di normalità a un processo considerato fuori standard.

Eppure, attorno al voto si muovono anche Stati interessati a mantenere canali aperti con Naypyidaw: non solo per la stabilità dei confini, ma per corridoi commerciali, energia e influenza strategica. È una dinamica che rende il Myanmar un dossier in cui principi e realpolitik viaggiano su binari paralleli.

La tecnologia del consenso: urne e macchine elettroniche

Tra gli elementi più pubblicizzati dalla giunta c’è la spinta tecnologica: l’introduzione di macchine per il voto elettronico in numero massiccio, presentata come modernizzazione e garanzia.

Ma in un Paese in guerra – dove la fiducia è l’ingrediente più scarso – la tecnologia rischia di diventare un moltiplicatore di sospetti: chi controlla i dispositivi, chi verifica il software, chi certifica i risultati? Senza osservatori indipendenti e con un’informazione sotto pressione, anche l’innovazione può trasformarsi in un altro fronte di conflitto politico.

Il convitato di pietra: la guerra che decide chi “esiste”

In Myanmar, oggi, la politica passa soprattutto dalle mappe militari. Da una parte la giunta, dall’altra una galassia di resistenze: forze legate al governo ombra, milizie locali e gruppi armati etnici. In mezzo, città e campagne che pagano il costo di bombardamenti, reclutamenti forzati, economia informale e fuga.

I numeri della crisi umanitaria danno la misura del baratro: milioni di sfollati interni e un bisogno crescente di assistenza alimentare e sanitaria. Le Nazioni Unite, nelle proiezioni per il 2026, descrivono un Paese in cui una quota enorme della popolazione avrà bisogno di aiuti salvavita e protezione.

Che cosa vuole ottenere la giunta: legittimità, investimenti, respiro

La giunta ripete che il voto serve al popolo e non ai giudizi esterni. La lettura più diffusa tra analisti è diversa: trasformare il potere militare in un potere “istituzionale”, capace di parlare il linguaggio delle elezioni e dei Parlamenti, anche senza concedere una vera alternanza.

In questa prospettiva, le urne diventano un ponte per: allentare la pressione internazionale, attrarre capitali o accordi energetici, rinegoziare relazioni regionali, e soprattutto guadagnare tempo in un conflitto che logora e impoverisce.

Ma l’operazione ha un limite evidente: se una fetta consistente del Paese non vota, o vota senza scelta reale, il risultato può essere formalmente “nuovo” e politicamente identico. Un cambio d’abito che non cambia la sostanza.

Il giorno dopo: stabilità promessa, instabilità probabile

La domanda decisiva non è chi vincerà – perché il favorito appare chiaro – ma cosa succederà dopo. Un Parlamento a trazione filo-militare può provare a normalizzare l’immagine del potere. Ma fuori dall’aula, la guerra continuerà a dettare la realtà.

Ecco perché, per molti myanmariani, questa elezione non è l’inizio di una nuova stagione: è un capitolo in più di una crisi che si allunga, mentre il Paese resta diviso tra il desiderio di pace e la certezza che, finché le armi comanderanno la politica, anche l’urna parlerà sottovoce. 

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