Dalle immagini satellitari al braccio di ferro NATO: mentre il Cremlino alza la posta, in Europa i partiti “amici” della Russia si muovono tra silenzi, distinguo e nervosismi.
Una base che ricompare sulle mappe
La scena, questa volta, non arriva da un comunicato trionfale né da una parata in Piazza Rossa. Arriva dall’alto: fotografie satellitari commerciali, cantieri che spuntano tra agosto e novembre, dettagli logistici che sembrano parlare una lingua militare chiarissima.
Secondo un’analisi di ricercatori statunitensi basata su immagini di Planet Labs, la Russia starebbe predisponendo in Bielorussia orientale una struttura compatibile con lo schieramento del nuovo missile balistico ipersonico Oreshnik, indicato come potenzialmente a capacità nucleare.
Il punto chiave è il “come”: non una semplice presenza simbolica, ma infrastrutture di ricezione e movimentazione. La ricostruzione parla di un ex aeroporto militare vicino a Krichev/Krychaw e di un’area con un trasferimento ferroviario di livello militare, delimitato da recinzioni e misure di sicurezza. È il genere di dettaglio che, in questo gioco di deterrenza, vale più di cento slogan.
Oreshnik: velocità, raggio e messaggio
Sull’Oreshnik circola un mix di dati tecnici, stime e propaganda. Le ricostruzioni più citate indicano un missile a raggio intermedio con portata fino a circa 5.500 km e velocità ipersonica (con stime oltre Mach 10): in altre parole, un vettore pensato per comprimere i tempi di reazione e stressare la difesa aerea avversaria.
Il significato politico è quasi più importante del resto: una capacità che, se proiettata da territorio bielorusso, ridisegna le distanze psicologiche prima ancora che quelle geografiche. È una mossa che parla ai Paesi NATO e all’Unione europea con un linguaggio brutalmente semplice: “posso arrivare ovunque, e più in fretta”.
La promessa di Putin e la conferma di Lukashenko
La traiettoria è stata preparata da tempo. In estate, Vladimir Putin aveva legato la produzione e lo schieramento dell’Oreshnik a un progetto dichiarato: dislocarlo in Bielorussia. E a metà dicembre, Alexander Lukashenko ha annunciato che i primi sistemi sarebbero entrati in servizio sul territorio bielorusso.
In quel racconto, la Bielorussia appare sempre meno come “alleato” e sempre più come piattaforma operativa: una pedana avanzata, utile anche solo per moltiplicare l’incertezza.
Nel linguaggio ufficiale russo, ovviamente, tutto viene incorniciato come risposta “difensiva” a un Occidente che “si prepara alla guerra”. Ma l’effetto concreto è l’aumento della pressione strategica sul fianco orientale europeo.
Non solo missili: Zelensky accusa Minsk di aiutare i droni
A rendere ancora più tesa la cornice c’è l’accusa ucraina sul presente, non sul futuro: Volodymyr Zelensky ha sostenuto che Mosca userebbe territorio bielorusso per facilitare attacchi di droni, anche con dispositivi installati in aree abitate vicino al confine.
Se questa dinamica fosse confermata, la Bielorussia non sarebbe soltanto retrovia logistica: diventerebbe parte attiva della geometria dell’attacco, con implicazioni pesanti anche sul piano politico e diplomatico.
Europa: deterrenza, sanzioni e la partita dell’energia
Sul tavolo europeo convivono tre dossier che si alimentano a vicenda: sicurezza, sanzioni e energia. Il 22 dicembre il Consiglio UE ha rinnovato le misure economiche contro la Russia fino al 31 luglio 2026, confermando la linea di continuità: pressione finanziaria e tecnologica per ridurre la capacità bellica russa.
Ma la partita più sensibile resta quella energetica. In queste settimane il Parlamento europeo ha spinto verso norme che mirano a restringere ulteriormente l’import di gas e GNL russi entro un calendario graduale: una scelta che tocca interessi industriali, bollette, e la politica interna di molti Paesi. Ed è qui che i partiti “ponte” con Mosca tornano a far sentire la loro voce: più in difesa che in attacco, ma presenti.
I partiti “amici” di Mosca: la mappa e i nervi scoperti
Parlare di “partiti filo-russi” in Europa significa spesso parlare di una galassia: formazioni nazionaliste o sovraniste, gruppi parlamentari che cambiano nome e composizione, e soprattutto una retorica che oscilla tra pacifismo di comodo, anti-americanismo e pragmatismo energetico.
In autunno, un’analisi sul comportamento di voto nell’Europarlamento ha descritto la crescita di un potenziale blocco “pro-Cremlino” o comunque più indulgente verso Mosca, nelle nuove dinamiche della legislatura.
Il punto non è che questi partiti “festeggino” i missili: sarebbe politicamente tossico. Il punto è un altro: quando Mosca alza il livello, il loro spazio di manovra si restringe. Devono scegliere tra la postura “dialogante” e la necessità di non apparire scollegati dalla percezione di minaccia che cresce nelle opinioni pubbliche europee.
Il caso Italia: la Lega tra “ponti” e imbarazzi
In Italia, la Lega è il caso più osservato perché negli anni ha costruito una narrazione di “riapertura” e di dialogo, con toni spesso divergenti rispetto alla linea euro-atlantica dei governi.
A inizio dicembre, Matteo Salvini ha ribadito la sua idea di ricucire i rapporti con Mosca, mentre il partito ha continuato a esprimere scetticismo su alcuni capitoli del sostegno militare a Kyiv.
Nel governo, però, la musica è diversa: il ministro della Difesa Guido Crosetto ha negato fratture sulla prosecuzione dell’assistenza all’Ucraina, segnalando che la linea ufficiale resta quella della continuità. E qui si vede la tensione: quando la Russia viene raccontata come minaccia diretta all’Europa (missili, nucleare, Bielorussia), la retorica del “basta armi” rischia di apparire come un invito alla resa o, almeno, come una sottovalutazione del problema.
Il risultato è un’agitazione più fatta di posizionamenti tattici che di dichiarazioni clamorose: distinguo, accenti, frasi in equilibrio. Perché se l’Europa sente il fiato dei missili, la politica interna smette di essere un talk show e torna a essere una prova di credibilità.
Il paradosso del Cremlino: “pace” a parole, pressione nei fatti
La comunicazione russa gioca da mesi una partita doppia: presentarsi come forza che “vuole la pace”, mentre spinge sulla leva militare e psicologica. In questo schema, il dispiegamento in Bielorussia ha un valore emblematico.
Non serve neanche che ogni dettaglio sia confermato: basta l’idea credibile che quei sistemi siano lì, pronti, potenzialmente mobili. È deterrenza, sì, ma è anche politica interna europea: un modo per alimentare paure, spaccature e richieste di “normalizzazione” con Mosca.
"I lavori preparatori sono in corso e molto probabilmente li concluderemo entro la fine dell'anno" è la formula-tipo che in queste settimane è tornata a circolare in ricostruzioni e citazioni: la frase perfetta, perché promette senza dimostrare, e intanto fa lavorare l’immaginazione strategica altrui.
Cosa cambia davvero per la sicurezza europea
Due effetti sono immediati. Primo: compressione dei tempi. Un vettore ipersonico, se impiegato come minaccia credibile, costringe a ripensare procedure e posture di difesa.
Secondo: allargamento del “teatro”. La Bielorussia torna ad essere un moltiplicatore: per i missili, per i droni, per la logistica e per la narrativa.
L’Europa, intanto, si muove su due binari: rafforzare il sostegno a Kyiv e blindare la propria resilienza (difesa, cybersicurezza, infrastrutture), mentre cerca di tenere unita la linea politica interna. È su quest’ultimo punto che Mosca investe: non solo con le armi, ma con l’erosione della coesione.