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Fisco, lo Stato non può chiedere sanzioni se è il primo a non pagare

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Fisco, lo Stato non può chiedere sanzioni se è il primo a non pagare

Lo Stato non può comportarsi da creditore inflessibile se, nello stesso tempo, è un debitore negligente. È questa l’essenza della sentenza della Corte di Cassazione che ha stabilito come l’Amministrazione finanziaria non possa pretendere dal contribuente sanzioni e interessi in caso di ritardi o irregolarità, se è essa stessa ad aver violato i termini di pagamento o ad aver generato la situazione di squilibrio. Una decisione che interviene su un terreno delicatissimo: quello del rapporto di forza tra cittadino e Fisco. Per anni, infatti, il principio della pretesa unilaterale ha prevalso, con l’Erario che impone, calcola, sanziona. Ma con questa pronuncia si apre un varco: l’asimmetria tra chi riscuote e chi paga potrebbe non essere più accettata come regola inamovibile.

Fisco, lo Stato non può chiedere sanzioni se è il primo a non pagare

Il principio affermato dalla Corte richiama una logica di reciprocità. Se il contribuente è obbligato a rispettare scadenze e adempimenti, lo stesso deve valere per lo Stato. Non si può più immaginare una pubblica amministrazione che agisce come giudice e parte, applicando sanzioni automatiche mentre accumula ritardi nei rimborsi, disfunzioni nei sistemi informatici, inadempienze nei trasferimenti. La Cassazione, nel motivare la propria decisione, sottolinea che l’equilibrio tra le parti deve essere garantito anche nelle situazioni di conflitto. Laddove lo Stato è inadempiente, decade la sua pretesa di rigore verso il cittadino. Una forma di rispetto istituzionale prima ancora che giuridico.

Gli effetti concreti per imprese e contribuenti
La portata della sentenza è potenzialmente dirompente per molti contribuenti italiani, in particolare per imprese e professionisti che si sono trovati a subire accertamenti, richieste di pagamento maggiorate da interessi e sanzioni, mentre contestualmente lo Stato risultava in debito verso di loro per rimborsi IVA, crediti d’imposta o compensazioni bloccate. Si apre ora la strada alla possibilità di impugnare le cartelle esattoriali che non tengano conto del comportamento complessivo dell’amministrazione. In pratica, si crea un criterio di valutazione più ampio, che include non solo la posizione del contribuente, ma anche quella dell’ente impositore.

Un principio destinato a incidere anche sull’azione dell’Agenzia delle Entrate
La pronuncia tocca anche l’operato dell’Agenzia delle Entrate e della Riscossione, che finora ha agito in virtù di un potere esecutivo sostanzialmente incontestabile. D’ora in avanti, almeno in teoria, dovrà valutare con maggiore attenzione il comportamento pregresso dell’amministrazione pubblica nei confronti del contribuente. Questo potrebbe tradursi in una revisione dei criteri di emissione degli atti esattoriali e nella necessità di adottare prassi più attente ai principi di proporzionalità e buon andamento dell’azione amministrativa. Il Fisco non sarà più soltanto il braccio che incassa, ma dovrà anche essere il soggetto che rispetta, in modo simmetrico, gli obblighi derivanti dalla legge.

Il segnale della magistratura: la fiscalità non è solo un tecnicismo

Al fondo della decisione della Cassazione c’è una visione della fiscalità come strumento che deve mantenere la propria legittimazione attraverso l’equità. Non basta che una norma consenta di applicare sanzioni. Serve che l’applicazione non diventi vessatoria o iniqua. Ed è proprio questo il punto su cui si fonda la svolta della sentenza: l’equità fiscale come elemento strutturale del rapporto tributario. È un cambio di paradigma che potrebbe avere effetti anche sul piano politico, spingendo il legislatore a intervenire per riequilibrare le regole nei rapporti tra Fisco e cittadino. Perché se l’imposizione diventa cieca e automatica, perde la sua funzione di strumento collettivo e rischia di diventare un mero esercizio di potere.

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