E’ fernuta ‘a zezzenella!
- di: Barbara Leone
Oh che bel castello marcondirondirondello, oh che bel castello marcondirondirondà… Chi non conosce “Il Castello delle cerimonie”? Personalmente, ho scoperto quest’esilarante tamarrata facendo zapping in pieno lockdown. Ammetto che sino ad allora ignoravo l’esistenza sia della location in sé che dell’omonima trasmissione televisiva che peraltro pare essere un vero e proprio cult in casa Real Time. Che vabbè, in quanto a ciofeche ne ha per tutti i gusti, ma sorvoliamo. Per chi non lo sapesse, stiamo parlando di una ei fu villa storica ubicata a San’Antonio Abate, nei pressi di Napoli, e trasformata nella cessata più kitsch e trash, accoppiata scoppiettante, che esista. Roba che tra un po’ neanche gli americani di Las Vegas sarebbero capaci di arrivare a tanto. E che da anni rappresenta il sogno proibito, nel senso che un sogno così aberrante andrebbe proibito da Morfeo, di migliaia di coppie disposte a indebitarsi fino all’osso del collo pur di festeggiare il proprio matrimonio a La Sonrisa, nome originale della location prima dell’exploit nel piccolo schermo. Matrimoni, ma anche battesimi, comunioni, diciottesimi e, tamarrata nella tamarrata, la new entry: il gender reveal party organizzato per rivelare il sesso del nascituro, che se la batte anche col baby shower, party realizzato invece per condividere la gioia del lieto evento con le persone più intime. Che, si sa, da Roma in giù equivalgono a due-trecento invitati come minimo.
Orbene, per festeggiare una di queste occasioni a La Sonrisa le famiglie dell’hinterland napoletano, ma non solo, solitamente si mettono in lista due o tre anni prima. Tempi più che raddoppiati dopo il covid. Tutto pur di trascorrere un giorno da favola, in capa a loro, in una struttura mastodontica e pacchiana all’ennesima potenza con tanto di eliporto, caratterizzata da giardini immensi, piscina con cascate, lusso sfrenato dentro e fuori e arredi sfacciatamente baroccheggianti degni di una reggia sì, ma decisamente tarocca e soprattutto ammantata da un inquietante, e neanche troppo nascosto, allure camorristico. Già, perché il “Castello” alla fine degli anni Settanta fu quartier generale di Raffaele Cutolo, nome che riecheggia più d’una volta nella storia de La Sonrisa, dal momento che il suo patron, don Antonio Polese (e quel don già dice tutto), acquistò il rudere dell’antico Castello Mediceo di Ottaviano proprio in nome e per conto del boss della Nco, tant’è vero che si beccò una condanna per favoreggiamento. Dalla quale, però, non uscì chissà quanto ammaccato, visto l’impero che ha poi costruito. Un impero a sei zeri, fondato però sull’abusivismo edilizio, e non solo.
A scrivere la parola game over è stata però ora la Cassazione, che con una sentenza esecutiva di qualche giorno fa ha stabilito la confisca definitiva della struttura ordinandone il passaggio al Comune di Sant’Antonio Abate. Una vicenda che, in realtà, risale al 2010 allorquando la Procura di Torre Annunziata contestò la costruzione abusiva di una sopraelevazione di circa 400 metri quadrati nella quale vennero ricavate 10 camere, cui seguì l’abbattimento di una mansarda e di un torrino abusivi. E’ da lì che si squarcia il velo sul Castello del “Boss delle cerimonie”, titolo della trasmissione sino alla dipartita del “don” avvenuta nel 2016, tempio del cattivo gusto ma soprattutto insopportabile esempio di strafottenza e di sistematica violazione delle leggi urbanistiche e di tutela del paesaggio protrattasi non per giorni, per settimane o per mesi, ma per decenni. E dire che bastava guardare qualche puntata del programma in onda su Real Time per capire di che cosa stiamo parlando: l’emblema del sodalizio occulto tipico di un certo Mezzogiorno che unisce popolo, amministrazione pubblica e amministrazione criminale. Un tavolino a tre gambe, dove tutti si compensa e tutto funziona.
Il resto è un di più: la benedizione di Mario Merola, la fantomatica laurea ad honorem conferita al “don” (ma poi smentita) dall’Ordine dei Cavalieri Crociati di Malta, la miscellanea infinita di imbarazzanti neomelodici, molti legati al mondo della camorra (anche questa cosa arcinota a Napoli) con tanto di pataccume d’oro al collo, le passerelle di pseudovip che si mescolano a scugnizzi e malavitosi, lo sfarzosissimo matrimonio tra i figli dei boss Mazzarella e Giuliano, l’accusa d’aver nascosto proprio tra le mura del “Castello” Rosetta Cutolo, le dirette su Raiuno del Festival Napoli Prima e Dopo… E poi feste e festini a base ostriche, tante ostriche, e champagne, tanto champagne, col Pibe de Oro, le camicie di seta bianche, il brillocco al mignolo e quell’insopportabile, fintissimo augurio ai festeggiati, che peraltro è sempre lo stesso, di 100 anni di felicità sempre vissuti in buona salute e come il vostro cuuuooore desidera. E’ così, infatti, che finisce ogni puntata. Un potpourri indigesto e tronfio, animato dalla scena dell’osceno in tutte le salse. E in tutto questo fanno un po’ sorridere e un po’ tremare i polsi dalla rabbia le parole di Ciro Polese, uno dei soci e proprietari del “Castello”, che ha così pontificato: “Pensavamo che la giustizia fosse diversa, che con i reati finiti in prescrizione non si procedesse in questo modo, non ce l’aspettavamo questa decisione”. Della serie Italia, pizza, mafia e mandolino. Perché effettivamente in un Paese civile e non corrotto posti come questi lavorerebbero forse un anno, e nemmeno.
Ora però, vivaddio, il simbolo più cafone della terra campana famosa nel mondo, esportata e imitata anche in America, ha chiuso i battenti. Spiace per i trecento e passa dipendenti cui sicuramente verrà trovata una diversa, e magari più consona, collocazione. Addio dunque alle cerimonie e ai pranzi da 45 portate, agli abiti in stile Al Capone, alle carrozze trainate da cavalli e alle povere colombe bianche lasciate libere di gioire per gli sposi nel giorno più bello della loro vita, allo scugnizzo, che scugnizzo non è, porta carriola, ai cantanti neomelodici che intonavano canzoni orribili conosciute a memoria da tutti gli invitati, addio agli spettacoli di Drag Queen e ai fuochi d’artificio degni del Capodanno di passaggio dall’anno 2999 al 3000. Addio a tutto questo. E finalmente. Direi. E come dicono a Napoli… è fernuta ‘a zezzenella. Che, tradotto, vuol dire che la pacchia, e la pacchianeria, forse è finita.