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Femminicidi, l’Italia nel paradosso: si parla di emergenza, ma il sistema resta cieco

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Femminicidi, l’Italia nel paradosso: si parla di emergenza, ma il sistema resta cieco
Ogni volta che una ragazza muore per mano di un uomo che diceva di amarla, il Paese si ferma per un giorno. Si commuove, si indigna, promette. Poi dimentica. È un rituale stanco, quasi liturgico. La cronaca riporta la dinamica – spesso già vista, già sentita –, si pronunciano le parole “femminicidio” e “emergenza”, si richiamano le statistiche. Ma la struttura che dovrebbe impedire queste morti resta sorda. E mentre lo Stato balbetta, il numero delle donne uccise cresce. Lentamente, ma inesorabilmente.

Femminicidi, l’Italia nel paradosso: si parla di emergenza, ma il sistema resta cieco

Nel 2023, secondo i dati del Viminale, sono state uccise in Italia 120 donne, 103 delle quali in ambito familiare o affettivo. Una ogni tre giorni. Da gennaio a oggi, il 2024 ha mantenuto lo stesso ritmo. Eppure la percezione collettiva è come se fosse ormai assuefatta. L’orrore si è normalizzato. Le uccisioni non sconvolgono più, ma sembrano quasi statistiche da aggiornare, collezioni di nomi e volti da dimenticare rapidamente.

È questo il cuore del problema: la ripetitività. Il femminicidio non appare come una frattura, ma come un evento ciclico. Ed è proprio questa ciclicità a renderlo inaccettabile. Non si muore per gelosia o per impulso improvviso. Si muore perché manca un argine, perché la violenza è anticipata, segnalata, tollerata. È il finale tragico di una storia che nessuno ha voluto leggere fino in fondo.

Le denunce ignorate, i segnali sottovalutati

La quasi totalità delle vittime aveva già manifestato il proprio disagio. Denunce archiviate, ammonimenti disattesi, richieste d’aiuto respinte. È qui che si consuma il paradosso italiano: il sistema penale è lento, formale, costruito per agire dopo il reato, non per prevenirlo. Ma la violenza di genere non è mai un fulmine a ciel sereno. È una traiettoria, un’escalation. Lo dicono le psicologhe, le avvocate, le attiviste. Eppure il dispositivo giuridico è ancora tarato sulla logica dell’atto, non del contesto.

Quando una donna denuncia, lo fa con fatica, spesso dopo anni di silenzi e paure. Trovarsi davanti un carabiniere che minimizza o un magistrato che archivia con formula standard può essere peggio della violenza stessa. L’omicidio, in questi casi, arriva non solo per mano dell’aggressore, ma anche per l’inerzia del sistema.

I centri antiviolenza come ultima trincea

In questo deserto istituzionale, i centri antiviolenza rappresentano l’unico baluardo. Ma lavorano in condizioni precarie: pochi fondi, scarso coordinamento con le forze dell’ordine, personale stremato. Eppure sono loro che intercettano i primi segnali, che accompagnano le vittime nei tribunali, che costruiscono percorsi di uscita.

Sono loro a ricordarci che il femminicidio è solo la punta dell’iceberg. Dietro ogni morte ci sono anni di maltrattamenti, di isolamento, di colpevolizzazione. La violenza domestica non si misura solo in lividi, ma in silenzi imposti, in vite ridotte a gusci. Chi arriva all’omicidio lo ha fatto perché ha potuto, perché la società – pur con mille proclami – non ha davvero detto no.

Cultura patriarcale e pedagogia del possesso

La radice di tutto è culturale. La violenza sulle donne non è solo un problema di sicurezza, è un fatto strutturale. Riguarda l’educazione sentimentale, la concezione dei rapporti affettivi, la distribuzione del potere nei legami. Il patriarcato non è scomparso: ha solo cambiato forma.

Oggi si presenta sotto abiti più moderni, mimetizzato nei linguaggi dell’amore romantico, del controllo affettuoso, della gelosia come prova di passione. Ma è la stessa pedagogia del possesso che, quando viene messa in discussione, esplode in odio. Le donne uccise non sono vittime di “raptus”: sono il risultato di una cultura che fatica a tollerare la loro autonomia.

Serve una rivoluzione, non un decreto

Non bastano più interventi d’urgenza né misure spot. Serve una rivoluzione culturale e politica. A scuola, dove l’educazione all’affettività deve diventare obbligatoria. Nei tribunali, dove le competenze devono essere specifiche. Nelle forze dell’ordine, dove la formazione su violenza di genere deve essere reale. E soprattutto nei media, che devono smettere di parlare di “delitti passionali” o “dramma della gelosia”.

Martina, come Giulia, Alice, Saman e le altre, non sono fantasmi. Sono figlie, sorelle, amiche. Sono storie interrotte. Ogni volta che una donna viene uccisa per aver voluto essere libera, il Paese perde un pezzo della propria umanità.

E fino a quando dire “emergenza” sarà solo un modo per posticipare il cambiamento, il sangue continuerà a scorrere.
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