La Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, ha deciso di mantenere invariati i tassi d’interesse sui Fed Funds, lasciandoli nella fascia del 4,25-4,5%. Una scelta ampiamente prevista dagli analisti, che segna una pausa dopo tre tagli consecutivi nel 2024, per un totale dell’1%.
La Fed è l’istituzione responsabile della politica monetaria statunitense e ha il compito di bilanciare tre obiettivi fondamentali: la crescita economica, la stabilità dei prezzi e la piena occupazione. Per raggiungere questi obiettivi, regola il costo del denaro, intervenendo con aumenti o riduzioni dei tassi d’interesse in base alle condizioni macroeconomiche.
La Fed prende tempo: tassi invariati negli Stati Uniti
Negli ultimi anni, la politica della Fed è stata caratterizzata da un'alternanza tra strette monetarie e allentamenti. Dopo la pandemia, l’istituto guidato da Jerome Powell ha dovuto aumentare in modo aggressivo i tassi per contrastare l’inflazione galoppante. Nel 2024, con il rallentamento della crescita e il raffreddamento dei prezzi, sono arrivati i primi tagli. Ora, però, la Fed sembra voler attendere, valutando attentamente l’evoluzione dell’economia prima di procedere con nuove riduzioni.
Secondo molti esperti, il prossimo intervento potrebbe arrivare solo nella seconda metà del 2025, quando si prevede un ulteriore indebolimento dell’economia americana. Tuttavia, molto dipenderà dall’andamento dell’inflazione e dall’impatto che la politica monetaria restrittiva avrà sulla domanda interna.
La Bce pronta al primo taglio del 2025
Mentre negli Stati Uniti la Fed mantiene un approccio cauto, in Europa l’attenzione è tutta sulla Banca Centrale Europea (Bce), che oggi terrà il suo primo meeting del 2025. Gli investitori si aspettano un taglio del tasso di riferimento di 25 punti base, con la possibilità di ulteriori quattro riduzioni nel corso dell’anno.
Se confermata, questa decisione segnerebbe l’inizio di una fase di graduale allentamento della politica monetaria, dopo il lungo periodo di rialzi attuato per contenere l’inflazione. La stretta della Bce ha pesato molto su famiglie e imprese, aumentando il costo dei mutui e rendendo più difficile l’accesso al credito. Un'inversione di tendenza potrebbe quindi portare benefici significativi, favorendo gli investimenti e stimolando i consumi.
Italia: fiducia in crescita tra imprese e consumatori
In questo scenario di attesa sui mercati globali, l’Italia mostra segnali di ottimismo. Secondo l’ultima rilevazione del Centro Studi Confindustria, le aspettative delle grandi aziende industriali sono in miglioramento. In particolare:
Il 28,7% delle imprese prevede un’espansione della produzione nel primo trimestre del 2025,
Il 59,9% si aspetta stabilità,
Solo l’11,4% prevede una contrazione.
Anche il sentiment dei consumatori è positivo: l’Istat segnala un aumento dell’indice di fiducia da 96,3 a 98,2 punti a gennaio, mentre quello delle imprese sale da 95,3 a 95,7. Numeri che indicano una moderata ripresa della fiducia, dopo mesi di incertezza legati all’inflazione e all’alto costo del denaro.
Le aspettative delle imprese e dei consumatori sono spesso un termometro dell’andamento futuro dell’economia. Un miglioramento della fiducia suggerisce che gli operatori economici percepiscono un contesto meno sfavorevole e sono più propensi a investire e spendere. Tuttavia, molto dipenderà dalle scelte della Bce: se la banca centrale effettuerà i tagli attesi, i tassi più bassi potrebbero dare un ulteriore impulso alla crescita italiana.
La Germania frena: Pil in forte rallentamento
Mentre in Italia si intravedono segnali di ripresa, la Germania fa i conti con una brusca frenata. Il governo di Olaf Scholz ha rivisto al ribasso le stime di crescita del Pil per il 2025, abbassandole dall’1,1% allo 0,3%.
Un ridimensionamento drastico, che conferma le difficoltà della prima economia europea. Da mesi Berlino sta affrontando una serie di problemi strutturali che frenano la sua crescita:
La contrazione della domanda globale, che penalizza il settore manifatturiero tedesco, storicamente trainato dalle esportazioni.
L’incertezza legata alla transizione energetica, con il progressivo abbandono delle fonti fossili e le difficoltà nel garantire energia a prezzi competitivi per le imprese.
L’aumento del costo del lavoro e delle materie prime, che riduce la competitività dell’industria tedesca rispetto ai concorrenti internazionali.
La Germania, tradizionalmente il motore economico dell’Europa, si trova quindi in una fase di debolezza che potrebbe avere ripercussioni sull’intera Eurozona. Se Berlino non riuscirà a invertire la rotta, il rallentamento tedesco potrebbe pesare sulla ripresa del continente, influenzando anche i Paesi più dinamici.
Uno scenario a doppia velocità
Il quadro economico europeo si muove quindi su due binari paralleli. Da un lato, Paesi come l’Italia che stanno cercando di consolidare la crescita, spinti dal miglioramento della fiducia e dalle attese di una politica monetaria più accomodante. Dall’altro, una Germania in difficoltà, il cui rallentamento rischia di zavorrare l’intera area euro.
L’attesa ora è tutta sulle prossime mosse della Banca Centrale Europea. Se il costo del denaro inizierà a scendere, l’economia europea potrebbe ritrovare slancio. Ma se i tagli dovessero tardare, o rivelarsi meno incisivi del previsto, il rischio è quello di una crescita ancora debole e frammentata.
In un contesto globale sempre più incerto, con gli Stati Uniti che mantengono un atteggiamento prudente e la Cina alle prese con il rallentamento del suo modello di sviluppo, l’Europa ha bisogno di stabilità e certezze. E molto, nei prossimi mesi, dipenderà dalle decisioni prese nelle stanze di Francoforte e Bruxelles.