La batosta elettorale apre la resa dei conti nei Cinque Stelle

- di: Redazione
 
Resa dei conti, di qualsiasi cosa si parli, soprattutto in politica, non significa che alla fine tutto cambierà. 
E anche i Cinque Stelle non si sottraggono a questa considerazione perché qualcosa cambierà in casa grillina dopo che è ,partito, sia pure sottovoce (con qualche tonante eccezione) il processo a Giuseppe Conte.
Soprattutto per una cosa: la politica dentro il movimento portata avanti da Conte e dai suoi più ascoltati consiglieri ha soffocato in culla la possibilità di un ricambio, che nei fatti i vertici non hanno voluto, rendendo difficile anche una candidatura in alternativa.

La batosta elettorale apre la resa dei conti nei Cinque Stelle

La mancanza di un contraddittorio interno (come evidenziato dai criteri seguiti per la composizione delle liste, debolissime, anche perché il vincolo del secondo mandato che ha catapultato, nella competizione elettorale, perfetti sconosciuti) sta comunque cominciando a mostrare le prime crepe perché la base, seppure ancora convinta dell'imprescindibilità di Conte, si sta chiedendo se, davanti al disastro, qualcuno se ne assumerà la responsabilità. 
Forse non completamente, ma un minimo di ''mea culpa'' ce lo si aspetta. E quel qualcuno dovrebbe essere Conte che deve fare i conti con un crollo elettorale che si temeva, ma certo non in queste proporzioni.
In alcune zone del Paese, fino all'altro ieri considerate feudo grillino, il partito ha avuto numeri e percentuali oggettivamente imbarazzanti, imponendo l'urgenza di dare risposte convincenti, sulla crisi di oggi e su come intende muoversi guardando a domani. Ma non un domani ipotetico, ma proprio le prossime ore.
Per fortuna dei Cinque Stelle non ci sono alle porte nuovi appuntamenti elettorali e il movimento, da un punto di vista dei tempi, avrebbe tutte le possibilità di fare una diagnosi, prescriversi delle terapie e aspettarne l'esito clinico. 
Il sentiero che Conte potrebbe imboccare rischia però di essere molto stretto se non, addirittura, costeggiando il baratro. Perché, se i numeri sono inequivocabili, il cul de sac in cui quello che si era presentato come ''l'avvocato del popolo'' si è infilato è veramente senza via d'uscita, a meno di trovare una soluzione che, in casa Cinque Stelle, sarebbe veramente creativa: restituire alla base la facoltà di decidere il futuro prossimo del movimento. 
Una ipotesi che non necessariamente comporterebbe la cacciata di Conte dalla plancia di comando, ma almeno darebbe una parvenza di collegialità che oggi, almeno all'esterno, non si palesa. 
Il confronto del risultato europeo con quelli del passato (anche se i più recenti mostravano già una contrazione  dell'elettorato grillino) è impietoso, ma evidentemente non al punto da spingere Conte non solo ad ammettere la sconfitta, ma ad annunciare una profonda autocritica, ben più spietata di quella di facciata annunciata quando exit poll e proiezioni avevano già delineato il tracollo.
Ma a dare il quadro della crisi dei Cinque Stelle non è, come si usa dire, la spietata legge dei numeri, quanto il fatto che le voci che hanno spezzato l'irreale silenzio dei vertici del movimento non sono state solo quelle dei tanti ''grilli parlanti'' (l'assonanza con il fondatore del partito è assolutamente involontaria) che si manifestano quando c'è qualcuno da mettere in croce. 
Ce ne sono state altre molto pesanti, come quella di Davide Casaleggio e dello stesso direttore del Fatto, Marco Travaglio, mai come oggi, a nostra memoria, realmente critico verso Giuseppe Conte.
Ma da qui a capire cosa accadrà ce ne corre, perché il presidente dei Cinque Stelle deve decidere chi sia realmente il nemico. Come hanno sottolineato alcuni analisti, se Conte avesse riservato anche solo una piccola parte dell'astio mostrato verso il Pd indirizzandolo verso il governo - al di là delle frasi quasi obbligate contro questa o quella mossa dei Meloni's boys - forse la composizione di una opposizione realmente efficace non sarebbe stata un'utopia.
Invece, come confermato da quanto accaduto in occasione di precedenti amministrative, quando l'accordo con il Pd, che pure poteva portare ad una vittoria, è stato vanificato da veti, piccoli o grandi.
Con il partito attestato intorno al 10 per cento si potrebbe anche pensare che l'emorragia non possa andare avanti, ma non è poi così campato in aria il rischio che  le fasce sociali che, con il voto, hanno fatto dei Cinque Stelle un partito di governo, si allontanino. Accantonato il Reddito di cittadinanza e disinnescato il superbonus edilizio, Giuseppe Conte ha poco o nulla da giocarsi per risalire elettoralmente  la corrente. A meno che non prenda atto che il Pd è il partito trainante dell'opposizione e decida di lavorare con lui, in una condizione paritaria, quindi senza la pretesa - in virtù della passata esperienza a Palazzo Chigi - di essere l'unico e solo.
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