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Hamas dice sì (a metà) al piano Trump: Israele irritato

- di: Bruno Coletta
 
Hamas dice sì (a metà) al piano Trump: Israele irritato

La mossa del movimento islamista coglie di sorpresa Gerusalemme. Netanyahu spiazzato dalle pressioni americane, mentre Trump esalta la “pace duratura” e ribalta i rapporti di forza.

(Foto: il premier israeliano Benjamin Netanyahu).

La notizia è arrivata come un fulmine nella notte di Gerusalemme: Hamas ha annunciato di accettare parti sostanziali del piano Trump per Gaza. Una dichiarazione che ha innescato una reazione immediata e trionfale da parte del presidente americano, pronto a proclamare la nascita di una nuova fase per il Medio Oriente. Ma se a Washington si respira aria di vittoria diplomatica, in Israele il clima è ben diverso: la sorpresa si è trasformata in irritazione, con Benjamin Netanyahu costretto a rincorrere gli eventi e a fare i conti con un alleato sempre più ingombrante.

Trump gioca d’anticipo e spiazza Gerusalemme

Poche ore dopo la dichiarazione di Hamas, Trump ha diffuso un messaggio su Truth Social in cui ha parlato di “pace duratura” e ordinato di fermare immediatamente i bombardamenti su Gaza per permettere il rilascio in sicurezza degli ostaggi. Un ordine secco, che ha lasciato il premier israeliano privo di margini di manovra. Netanyahu stava infatti preparando una risposta diplomatica prudente, convinto che il messaggio di Hamas potesse essere liquidato come un rifiuto. La mossa americana gli ha tolto questa possibilità.

Il contrasto è stato evidente: Trump ha voluto mostrare al mondo di aver ottenuto un successo immediato, mentre a Gerusalemme si è avuto l’impressione di essere stati scavalcati. Un funzionario israeliano ha raccontato che Netanyahu, poco prima del post di Trump, aveva detto ai suoi consiglieri di considerare l’apertura di Hamas un bluff. Invece, Washington ha deciso di interpretarla come un consenso sostanziale, ribaltando il tavolo negoziale.

Un governo in trappola tra falchi e alleati

Il problema di Netanyahu non è solo con gli Stati Uniti, ma anche interno. La sua coalizione è sostenuta da partiti ultraconservatori che vedono in ogni apertura a Hamas un segnale di cedimento. Molti ministri parlano apertamente di “illusione pericolosa” e chiedono di proseguire con l’offensiva militare fino a quando Hamas non sarà completamente disarmato. Ma la squadra di negoziatori israeliani, impegnata da mesi sul fronte della liberazione degli ostaggi, intravede invece uno spiraglio. Il risultato è un governo diviso, sotto pressione e sempre più isolato.

In questo contesto, l’irritazione di Netanyahu è comprensibile: Trump ha spostato la pressione da Hamas a Israele. Prima la domanda era se Hamas fosse pronto a dire sì; ora è Israele a dover dimostrare di non essere un ostacolo alla pace. Una dinamica che indebolisce il premier davanti all’opinione pubblica internazionale e, soprattutto, ai suoi alleati interni più radicali.

Washington si divide, ma Trump capitalizza

Negli Stati Uniti le reazioni politiche confermano la spaccatura. I democratici parlano di “passo nella giusta direzione”, mentre i falchi repubblicani si dicono convinti che la risposta di Hamas sia un semplice “sì, ma” privo di valore. Lindsey Graham ha sottolineato come manchi qualsiasi riferimento al disarmo, condizione imprescindibile per considerare l’accordo credibile. Più accomodante Marjorie Taylor Greene, che ha definito la pace “fortemente necessaria”.

Trump, però, sembra avere un solo obiettivo: dimostrare che la sua amministrazione è in grado di piegare il conflitto a una soluzione rapida e mediatica. Dopo aver minacciato Hamas con un ultimatum di poche ore, ha scelto di presentarsi come il leader che ha ottenuto la resa diplomatica. Una narrativa funzionale alla campagna elettorale americana e capace di mettere Netanyahu in secondo piano.

Le frizioni con Israele e i rischi per l’alleanza

L’irritazione israeliana non è solo politica, ma anche strategica. Gerusalemme teme che l’accettazione parziale di Hamas venga interpretata come un via libera internazionale, riducendo lo spazio per continuare l’offensiva. Inoltre, la sensazione di essere stati scavalcati rischia di incrinare il rapporto con Washington. Per la prima volta, Israele si trova a dover giustificare le proprie scelte non solo agli occhi della comunità internazionale, ma anche davanti a un alleato che detta la linea.

Alcuni commentatori israeliani hanno parlato apertamente di “umiliazione diplomatica”: Netanyahu, che da sempre rivendica la capacità di influenzare la politica americana, ora appare come l’interlocutore costretto a subire decisioni unilaterali. Una condizione che potrebbe indebolirlo anche sul piano interno, alimentando la contestazione di chi lo accusa di non essere più in grado di garantire la sicurezza del Paese.

Le reazioni internazionali e il ruolo europeo

In Europa la notizia è stata accolta con prudenza. Emmanuel Macron ha scritto su X che “il rilascio di tutti gli ostaggi e un cessate il fuoco possono essere ottenuti”, ringraziando Trump per l’opportunità di “progressi decisivi verso la pace”. Dietro le dichiarazioni ufficiali, però, molti governi restano scettici: l’assenza di un impegno chiaro sul disarmo e sul futuro politico di Gaza rende l’accordo fragile e potenzialmente effimero. L’Egitto, intanto, ha invitato Hamas a compiere il passo decisivo e a deporre le armi, sperando di rafforzare il proprio ruolo di mediatore regionale.

Uno scenario incerto e carico di tensioni

Al centro del dibattito restano tre nodi: il destino degli ostaggi, il disarmo di Hamas e il futuro di Gaza. Trump ha scelto di enfatizzare il primo punto, minimizzando gli altri due. Israele, al contrario, considera il disarmo una condizione non negoziabile. Hamas, dal canto suo, ha accettato la logica dello scambio ostaggi-cessate il fuoco, ma insiste nel voler giocare un ruolo politico nel futuro della Striscia.

Il risultato è un equilibrio precario: se Israele dovesse respingere l’iniziativa, rischierebbe di apparire come il vero ostacolo alla pace; se invece accettasse, dovrebbe affrontare una rivolta interna da parte della sua stessa coalizione. Nel frattempo, Trump continua a capitalizzare la scena, rafforzando la sua immagine di “uomo del destino” pronto a risolvere le crisi globali a colpi di annunci.

Israele nell’angolo

La partita resta aperta, ma un dato è certo: Netanyahu è stato colto di sorpresa e ora si trova nell’angolo. L’alleato americano ha trasformato una fragile apertura di Hamas in una vittoria politica da esibire al mondo, lasciando Israele con il compito ingrato di giustificare la propria linea dura. Se il piano dovesse fallire, sarà Gerusalemme a pagare il prezzo maggiore. Se invece dovesse andare avanti, sarà Trump a incassare il dividendo politico, relegando Netanyahu al ruolo di comprimario. Per Israele, abituato a dettare i tempi e a guidare la strategia, è un ribaltamento senza precedenti.

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