Tornare alle urne, anche se la situazione è drammatica?
- di: Redazione
La situazione - politica, economica, sociale - che sta vivendo il Paese non può essere liquidata con poche frasi di circostanza, abbastanza scontate, sul fatto che l'Italia non si merita questo e, soprattutto, per le devastanti incongruenze di un singolo partito, lacerato da divisioni e invidie.
Ma quanto accade ripropone un tema che spesso viene accantonato perché sopravanzato, in termini di drammatici, da altri più direttamente collegati alla quotidianità. Parliamo della nostra democrazia, che trova nelle elezioni parlamentari il momento più alto perché porta gli italiani a scegliere le persone cui affidare il futuro delle sorti del Paese. Non è ricerca di frasi auliche, ma la semplice verità: quando infiliamo (per chi ancora crede in questo rito) la scheda nell'urna, chiediamo alla persona di cui abbiamo scritto il nome di rappresentare le nostre aspettative e, quindi, le nostre speranze per un futuro migliore.
Crisi di Governo: le elezioni sono davvero l'unica soluzione?
Questa premessa la si deve comunque attualizzare, perché ormai da anni stiamo assistendo ad un progressivo allentamento del legame tra cittadini e parlamento, che ha perso la sua caratteristica politicamente progressiva, riducendosi ad una macchina di votazioni, che spesso sono paracadutate senza che esse abbiano il benché minimo passaggio in aula, anche solo per un confronto sul loro contenuto o sulle loro finalità.
Il progressivo impoverimento delle prerogative del parlamento ha determinato una distorsione nella percezione della funzione delle Camere, viste ormai come un luogo non di deliberazione, ma di mera ratifica.
Il Parlamento dovrebbe, quindi, reclamare la propria primazia sulla politica, ma questo cozza con logiche che non sempre sono chiare, a volere essere generosi.
Il sistema, per come si manifesta da troppi mesi a questa parte, è in crisi anche perché paralizzato da una distorsione, figlia dell'assenza di norme che impediscano al parlamento di cambiare la sua colorazione in corso di legislatura, dando ai singoli senatori o deputati la facoltà di cambiare gruppo o casacca, per motivi ideologici o di bottega (leggi: portafoglio). Quindi l'attuale ripartizione dei seggi è totalmente diversa da quella uscita dalle elezioni del 2018 e, peraltro, non rispecchia i cambiamenti politici che sono intercorsi in questi anni, con partiti che sono crollati in modo clamoroso e altri che hanno guadagnato in modo esponenziale consenso e rappresentanti nei consessi territoriali. Pensiamo ai Cinque Stelle che, da gruppo maggioritario a Camera e Senato e ancor prima delle ultime convulse giornate, ha perso pezzi sempre più consistenti della sua rappresentanza parlamentare; pensiamo alla Lega che ha quasi dimezzato, negli appuntamenti elettorali degli ultimi anni, i suoi consensi.
Il Paese, quindi, cambia - e guai se non fosse così -, ma di questo non sembra esserci traccia nel nostro parlamento, che resta ancorato a schemi e partiture che non corrispondono alla realtà dei fatti.
Se i sondaggi, peraltro concordi, hanno una qualche attendibilità, l'Italia di oggi in parlamento si farebbe rappresentare, almeno per il 20 per cento, da Giorgia Meloni e dai suoi Fratelli d'Italia, mentre i Cinque Stelle, alla fine dei processi di diaspora, galleggerebbe intorno ad un 10 per cento, con la Lega a metà strada e quindi non abilitata ad esprimere il candidato premier. Ma di questo non v'è traccia in parlamento. Tornare alle urne sarebbe, in questo momento, deleterio per la contingenza che attraversiamo, ma, insieme, sarebbe anche restituire al popolo il potere di scegliersi i suoi rappresentanti, quali che essi siano.