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Milei brinda all’accordo con gli Usa: cosa cambia per l’Argentina

- di: Bruno Legni
 
Milei brinda all’accordo con gli Usa: cosa cambia per l’Argentina
Dazi alleggeriti su una parte dei prodotti, porte più spalancate alle merci statunitensi, promesse di investimenti e cooperazione nei minerali critici. Il nuovo accordo commerciale e sugli investimenti tra Buenos Aires e Washington diventa, nelle parole del presidente Javier Milei (foto), il simbolo della sua scommessa: legare il rilancio dell’Argentina al mercato e all’alleanza con gli Stati Uniti.

Dal palco di un evento nella città di Corrientes, il capo dello Stato ha ostentato entusiasmo. “È una notizia enorme per il nostro Paese: con questo passo faremo di nuovo grande l’Argentina”, ha proclamato Milei, trasformando un testo tecnico fitto di sigle e allegati in uno slogan da campagna permanente.

Che cosa prevede davvero l’intesa Argentina–Usa

Al netto dei toni celebrativi, l’accordo è un framework commerciale e di investimento: una cornice che fissa impegni politici e regole generali, da tradurre nei prossimi mesi in misure concrete. Sul piano commerciale, Washington si impegna a ridurre o azzerare i dazi su una serie di prodotti argentini considerati non in concorrenza con la produzione interna statunitense, in particolare alcune materie prime e componenti per l’industria farmaceutica.

In cambio, Buenos Aires accetta un’apertura più ampia al made in Usa. Il governo argentino garantisce corsie agevolate e accesso preferenziale per prodotti come medicinali, prodotti chimici, macchinari, dispositivi medici, veicoli e una gamma estesa di beni agricoli. L’intesa prevede inoltre tempi più rapidi e regole più chiare per l’autorizzazione all’ingresso di carni bovine, suine e avicole statunitensi, oltre a un impegno a non introdurre nuove restrizioni su alcuni tipi di carni e formaggi.

Un capitolo chiave riguarda i servizi digitali e l’economia delle piattaforme. L’Argentina promette di non introdurre tasse specifiche sui servizi digitali statunitensi e di non applicare dazi ai trasferimenti elettronici, allineandosi alla posizione di Washington sulla tassazione delle big tech.

Minerali critici, energia e lavoro forzato: il lato strategico

Il cuore politico dell’accordo non è tanto nei dazi agricoli, quanto nelle catene del valore considerate strategiche dagli Stati Uniti. Il testo impegna l’Argentina a trattare le imprese americane in modo “equo” nel settore dei minerali critici – litio in testa – e a rafforzare la cooperazione per gli investimenti in infrastrutture energetiche e logistico–portuali.

Per gli Stati Uniti, questa clausola serve a blindare l’accesso a risorse essenziali per la transizione energetica e a ridurre la dipendenza da fornitori percepiti come meno affidabili. Per Buenos Aires, che sogna di diventare una potenza del litio, significa più capitali e tecnologia, ma anche un maggiore allineamento alla strategia economica e geopolitica di Washington.

Un’altra sezione dell’intesa riguarda la lotta al lavoro forzato e alla contraffazione. Il governo argentino si impegna a rafforzare i controlli per evitare l’ingresso di merci prodotte con lavoro coatto e ad aumentare le sanzioni contro prodotti contraffatti o pirata. Obiettivo dichiarato: rassicurare investitori e consumatori statunitensi sulla “pulizia” delle filiere che passano per l’Argentina.

Perché Milei canta vittoria

Per Javier Milei, l’accordo è molto più di un dossier tecnico: è un trofeo politico. Dalla campagna elettorale in avanti, il presidente ha presentato l’avvicinamento agli Stati Uniti come l’architrave del suo progetto di “normalizzazione” dell’Argentina sui mercati globali.

La sua narrativa è chiara: “Più apertura, meno Stato, più mercato”. Questo patto, nella lettura del governo, porta tre dividendi immediati. Primo: un segnale pro–mercati che può aiutare a sbloccare nuovi investimenti privati. Secondo: la prospettiva di nuovi sbocchi per l’export agro–industriale, fondamentale in un Paese cronicamente a corto di dollari. Terzo: il rafforzamento del legame personale e politico con Washington, in un momento in cui l’Argentina tratta su più tavoli – dal Fondo monetario agli investitori privati.

A fare da spalla al presidente è il ministro degli Esteri Pablo Quirno, uno dei volti più ascoltati dai mercati. In un messaggio ufficiale ha sintetizzato così la portata dell’intesa: “È un privilegio e un onore poter annunciare che Argentina e Stati Uniti hanno raggiunto oggi un accordo quadro sul commercio e sugli investimenti reciproci, che crea le condizioni per aumentare gli investimenti statunitensi nel nostro Paese”, ha rivendicato.

Il contesto: tra vecchi accordi e nuova geopolitica

L’intesa non nasce nel vuoto. Tra Buenos Aires e Washington esiste già da anni un Trade and Investment Framework Agreement, una piattaforma di dialogo su commercio e investimenti che aveva subito però stop, rallentamenti e ripartenze, a seconda dei governi.

Con Milei alla Casa Rosada, il rapporto entra in una fase nuova: il governo argentino ha scelto di ri–ancorare la propria strategia economica all’asse con gli Stati Uniti, puntando su tre pilastri – riforme interne, accordi con il Fondo monetario e apertura selettiva a investimenti esteri in settori chiave come energia, agroindustria e minerali.

Per la Casa Bianca, l’operazione si inserisce in un disegno più ampio: usare la leva dei dazi e degli accordi bilaterali per rispondere al malcontento interno per il costo della vita, ma anche per consolidare un blocco di governi amici in America Latina, in grado di controbilanciare l’influenza cinese nella regione.

Chi ci guadagna e chi teme di perdere

Nel breve periodo, i benefici più visibili per l’Argentina potrebbero arrivare da agroalimentare, energia e filiere legate ai minerali critici. Le imprese esportatrici sperano che la riduzione dei dazi su alcune materie prime e la facilitazione dell’accesso al mercato statunitense si traducano in più contratti e margini migliori. Il governo, da parte sua, punta su più dollari in cassa per stabilizzare il cambio e sostenere il programma di riforme.

Ma non mancano i timori. Le associazioni dell’industria locale, in particolare tra piccole e medie imprese manifatturiere, guardano con sospetto all’ingresso di nuovi concorrenti statunitensi in settori come farmaceutica, macchinari e componentistica. Il rischio, secondo i critici, è che un’apertura troppo rapida faccia esplodere la competizione prima che il tessuto produttivo abbia il tempo di ristrutturarsi.

Preoccupati anche i sindacati e i movimenti sociali, che leggono il pacchetto come un’ulteriore “americanizzazione” di norme e standard, con la possibilità che la pressione per attirare investimenti si traduca in concessioni su lavoro e ambiente. Dove il governo promette “modernizzazione”, gli oppositori vedono il rischio di un paese sempre più dipendente dal capitale straniero.

Un accordo pro–mercato in un’economia ancora fragile

La grande incognita è quanto l’accordo potrà incidere su un’economia che resta, nonostante i miglioramenti recenti, molto vulnerabile. L’Argentina esce da anni di inflazione fuori controllo, svalutazioni a ripetizione e cicliche crisi del debito. Alcuni indicatori mostrano un parziale riassestamento – cambio più flessibile, inflazione in rallentamento, conti pubblici in via di aggiustamento – ma la base sociale resta provata e le riserve valutarie sono tutt’altro che abbondanti.

In questo quadro, il patto con gli Stati Uniti è insieme una boccata d’ossigeno e una prova di resistenza. Se le promesse di nuovi investimenti si concretizzeranno, Buenos Aires potrà guadagnare margine di manovra per ridurre il peso del debito e finanziare crescita e infrastrutture. Se invece l’afflusso di capitale tarderà, l’Argentina rischia di aver concesso molto in termini di apertura del mercato senza ottenere in cambio il salto di scala sperato.

Prossime mosse e battaglia politica interna

Nei prossimi mesi, l’accordo dovrà essere tradotto in normativa concreta, con decreti, regolamenti e intese settoriali che definiranno liste di prodotti, tempi di attuazione, controlli e sanzioni. È in quella sede che si vedrà quanto spazio avranno le lobby industriali, agricole e sindacali argentine, e dove si collocheranno le eventuali linee rosse di Washington.

In Parlamento e nelle piazze la partita è già iniziata. L’opposizione peronista accusa il governo di “svendere la sovranità economica”, mentre l’esecutivo ribatte che chi critica l’accordo difende in realtà rendite di posizione e protezionismi che hanno trascinato il Paese nelle sue crisi ricorrenti.

Per ora, Milei scommette tutto sulla narrazione dell’“Argentina che torna nel mondo”. Ma la domanda di fondo resta aperta: questo accordo sarà il trampolino verso una crescita più stabile o l’ennesimo capitolo di una dipendenza irrisolta? La risposta arriverà non dai comunicati trionfali, ma dai numeri – investimenti, export, salari reali – che nei prossimi anni diranno se il brindisi di Corrientes segnava davvero l’inizio di una nuova fase o solo l’ennesima illusione.

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