Il caos grillino lascia Draghi con il cerino in mano: Costituzione alla mano, cosa può fare?
- di: Redazione
Il terreno su cui ora cammina il governo Draghi, dopo la spaccatura che ha lacerato in Cinque Stelle, è pericoloso, perché con queste premesse e questo clima, il futuro dell'esecutivo è , a dire poco, a rischio. Perché, per ipotesi, i Cinque Stelle potrebbero rivendicare la poltrona della Farnesina che oggi vedono occupata da un ''abusivo'' che ha appena girate loro le spalle. Una richiesta che acuirebbe la situazione di disagio di Draghi che, sin dal momento del suo insediamento, ha fatto capire di non volere subire le logiche dei partiti e, men che meno, entrare nelle loro beghe.
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Lui la pattuglia dei ministri, fatta qualche eccezione (ai partiti bisognava dare pure la sensazione di determinare), se l'è costruita pezzo per pezzo e ora a fare a meno di uno dei compagni di esecutivo potrebbe non pensarci nemmeno. Ma il suo è un governo di coalizione e quindi non può ignorare che il quadro non solo politico, ma anche istituzionale è profondamente mutato. Come ha fatto rimarcare, con la solita delicatezza, Matteo Salvini, che c'è andato giù duro, anche se non in molti hanno colto una contraddizione. Perché, ha detto Salvini, "se qualcuno rimane nel governo senza rappresentare nessuno, un problema ci sarà…nel senso, a nome di chi va in giro per il mondo il ministro degli Esteri? Non ho capito chi rappresenta chi…".
Una involontaria quanto comica caduta di stile queste parole dette da chi, ignorando le regole della diplomazia e anche quelle del rispetto delle Istituzioni, ha dovuto fare una clamorosa marcia indietro dopo avere tentato di andare a Mosca per perorare la causa della pace. Non capendo l'Italia intera (Lega compresa) chi lui rappresentasse, per usare la sua stessa considerazione.
Ma il problema rimane perché la stessa composizione delle rappresentanze dei partiti della coalizione è mutata, sia nella geografia che nella consistenza, inducendo a qualche riflessione sulla base il manuale Cencelli, sia pure 3.0.
Draghi, quindi, potrebbe essere incalzato e portato su una scacchiera che proprio non gli aggrada, ma che deve attraversare, almeno per sentire le ragioni dei Cinque Stelle, sempre che chiedano la testa di Di Maio. Anche perché, soppesando i ministeri, quello degli Esteri viene considerato un dicastero pesante, cui è ben difficile rinunciare, magari chiedendone un altro dopo un mini-rimpasto. Ed è qui che arrivano i problemi. .
Logica vorrebbe che il primo ministro, nel momento in cui propone al presidente della repubblica i suoi ministri, abbia anche la possibilità di revocarli. Ma gli strumenti in mano a Draghi per questa eventualità sono imperfetti perché la Costituzione sul punto non è affatto chiara. Né, aggiungiamo, sino ad oggi è mai accaduto, perché è sempre prevalsa la ragionevolezza, come accaduto per ultimo nel caso di Federica Guidi, che si dimise perché non poteva pensare d'essere solo sfiorata da un sospetto, che poi si è dimostrato totalmente infondato, restituendola a quell'imprenditoria che aveva momentaneamente lasciato, solo per rispondere all'invito di Matteo Renzi.
La situazione è diversa, ma era un precedente da citare, per fare capire che dal governo si va via solo per propria scelta. Resta sempre lo strumento della sfiducia, che sino ad oggi è stata solo un momento di dissenso, perché gli stessi partiti che la presentano sanno bene che la ruota gira e la prossima volta potrebbe capitare a loro. Come si è detto, la stessa Costituzione non dà elementi di chiarezza, come è evidente dalla lettera dell'art.94, che parla del Governo che deve ottenere la fiducia delle due Camere. Ma se la fiducia non si ottiene non c'è obbligo d dimissioni. Quindi, se questo vale per l'esecutivo, può valere per ogni suo singolo componente.
Ecco quindi che il cerino torna nelle mani di Mario Draghi, che rischia di bruciarsi, anche senza colpe.
Tenuto conto che il suo è un governo con un preciso mandato, il presidente del Consiglio deve guardare certamente al caos grillino, ma non facendone pagare il prezzo al governo e quindi anche al Paese. A meno che Giuseppe Conte non faccia un gesto di enorme valore politico e morale: accettare che Di Maio resti alla Farnesina, ma spiegando che il passo indietro è solo nell'interesse dello Stato e di quegli italiani di cui voleva diventare l'avvocato. Un colpo anche mediatico, perché gli restituirebbe quel profilo di statista che ha da sempre rivendicato, ma che in pochi, al di là della ristretta cerchia di suoi collaboratori, amici ed adulatori, gli hanno mai riconosciuto.
Ma un simile colpo di teatro piacerebbe a chi gli sta accanto solo per aizzarlo contro il nemico di turno?