L'intolleranza è diventata ormai uno strumento di lotta

- di: Diego Minuti
 
Se si riuscisse nella fantascientifica operazione di resettare la nostra memoria politica, è difficile immaginare quali potrebbero essere le reazioni davanti alla sconcezza di spettacoli ai quali siamo costretti ad assistere, senza conoscerne le reali motivazioni.
Ed è ancora più sconcertante pensare che, davanti a quanto sta accadendo in questi giorni, il Paese non si sollevi per denunciare che la violenza, quale che ne sia la spiegazione, resta una cosa che non si può accettare in una nazione che è fondata sulla democrazia, che non è solo una forma di governo, ma la strada maestra di una comunità, fondata sul rispetto e il principio di solidarietà.

Non stiamo a discutere i timori che circolano sui vaccini (guarda caso alimentati da una estrema destra, prontissima a cavalcare la rabbia di una porzione della popolazione solo per fini di consenso), quanto sul fatto che essi siano posti alla base di episodi di intolleranza che non possono essere di un Paese che dice di essere civile.

L'assalto al gazebo dei Cinque Stelle di Milano fa il paio con l'aggressione ai danni di una giornalista della Rai che, in mezzo ai no vax/no green pass e soprattutto non nascondendosi, cercava solo di capirne le ragioni, sono capitoli di uno stesso libro, che viene scritto quotidianamente.
La violenza, aborrita dalla nostra Costituzione e dal senso di convivenza, è tornata ad essere protagonista, nella quasi inanità della classe politica che si è espressa con dichiarazioni e note stampa, ma che si ferma sul limite di atti concreti, quelli che possono dare alla gente la certezza che il Paese non è terreno di scorribande per facinorosi che ritengono di fare valere le loro ragioni a calci, pugni e sputi.

È doloroso - senza con questo volere prendere le difese di chicchessia - vedere che tra gli assalitori alla postazione dei Cinque Stelle (che volevano promuovere i loro candidati alle Comunali) ce n'era qualcuno che andava all'attacco avvolto in un tricolore, che è simbolo supremo dell'unità del Paese e che non può servire per mascherarsi, per sfuggire alle proprie responsabilità impedendo la sua identificazione.
Accade anche questo e resta incomprensibile che si continui ad accettare la violenza come strumento politico e, soprattutto, come cancellazione dell'altrui pensiero. Quasi che lo squadrismo, inteso come elemento di prevaricazione, non appartenga alla nostra storia.
È, poi, molto inquietante l'annuncio di una serie di manifestazioni, in contemporanea, che sono state convocate per il primo settembre preannunciando il ''blocco delle stazioni ferroviarie'' per protesta contro il ''passaporto schiavitù''.

L'obiettivo delle manifestazioni non è nemmeno lontanamente equivocabile perché, anche se il blocco viene definito ''pacifico'', nell'appello si dice chiaramente che, alle 15, i manifestanti entreranno nelle stazioni e se ''non ci fanno partire con il treno senza il passaporto schiavitù, allora non partirà nessuno". L'elenco delle stazioni che saranno teatro delle manifestazioni è lunghissimo, ma, soprattutto, se le alle minacce seguirà effettivamente una occupazione, il rischio è di vedere paralizzato il traffico del Paese. Perché, fatta qualche eccezione (la manifestazione a Roma si svolgerà davanti alla stazione Tiburtina e non a Termini), nell'elenco diramato dagli organizzatori figurano i maggiori e cruciali nodi ferroviari: Milano, Firenze, Bologna, Napoli, Villa San Giovanni, Genova. È abbastanza chiaro che dietro l'annuncio c'è un gruppo che ambisce ad organizzarsi su base nazionale, praticando una politica della minaccia e quindi proponendosi come interlocutore.

Se solo si avesse tempo e voglia di elencarli, gli ipotetici reati che i promotori della protesta - che non si firmano né fanno riferimento ad alcuna sigla o formazione politica - sono parecchi e anche potenzialmente forieri di lunghe condanne. Speriamo che il buonsenso prevalga, anche se la sensazione è che siamo solo all'inizio di una stagione di intolleranza.
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