Casalpalocco: con l'assassino libero, Manuel ucciso per la seconda volta

- di: Redazione
 
Quattro anni e quattro mesi e nemmeno un giorno di reclusione ''vera''.
Così Matteo Di Pietro, il ventenne che, alla guida di un ''mostro'' a quattro ruote (un Suv Lamborghini lanciato a oltre 100 chilometri orari in una strada di quartiere, a Roma) , ha ucciso Manuel, che di anni ne aveva cinque, ha sconfitto la giustizia.
Perché non è giustizia vederlo ritornare alla vita normale - al netto del dolore che patisce, come ci ha lodevolmente fatto sapere il suo avvocato - dopo essere stato causa della morte di un bambino cui è stato negato un domani.

Casalpalocco: con l'assassino libero, Manuel ucciso per la seconda volta

Ma non c'è nulla di eccezionale, nessuna carezza immotivata del giudice nei confronti di Di Pietro, che ha soltanto goduto di attenuanti, sconti di pena e considerazione per la carcerazione preventiva (ai domiciliari) patita, avendo quindi la certezza che un carcere lo vedrà da lontano, semmai avesse voglia di passarci davanti solo per capire che fortuna abbia avuto.

Ma, detto questo, non si può non considerare il contesto in cui è maturata la tragedia di Manuel, che viaggiava a bordo dell'auto guidata dalla madre e morto perché Di Pietro era impegnato in una sfida, da filmare e quindi mostrare su un canale video per lucrarci su. Cosa su cui forse si sarebbe dovuto riflettere nel momento in cui il giudice ha accolto la richiesta di patteggiamento.
Manuel non è morto per una manovra errata, puramente accidentale, ma solo perché un gruppo di imbecilli stava sfidando la sorte, correndo a bordo di un Suv in stradine trafficate e non considerando, razionalmente, i rischi ai quali esponevano loro stessi e soprattutto altri, innocenti.

Però nessuno potrà eccepire nulla su come sia stata determinata la condanna e sul perché l'imputato godrà di un beneficio come quello di essere affidato a qualche organismo che veglierà sul suo reinserimento sociale, sempre che il suo sbandierato ravvedimento sia vero e non dettato dalla necessità di mostrare il suo pentimento come strategia processuale (lo fanno in molti, quindi non deve affatto sorprendere).
Resta però l'amarezza per avere assistito ad un epilogo di una vicenda che scontenta tutti, ad eccezione dell'imputato.
Scontenta la famiglia della vittima nel vedere libero il ventenne che ha impedito a Manuel di vivere i suoi vent'anni.
Scontenta la gente normale che continua a interrogarsi su alcune sentenze, che, impeccabili dal punto di vista procedurale, sembrano non cogliere il comune sentire che chiede che la pena sia certa e che certe scorciatoie siano concesse, ma solo per reati di minore impatto sociale.

Scontenta, probabilmente, anche chi opera e alimenta il mondo di TikTok, ma in modo responsabile, e che si vede accostato ad una manica di semi-deficienti, da definire tali perché non sanno cosa sia la decenza e la prudenza e si sono spinti per le loro sfide in un territorio dove la tragedia è sempre in agguato.
Che poi questa sentenza sia stata, per qualche esponente politico, l'occasione per strumentalizzare lo sconcerto che essa ha provocata è nella logica delle cose. Anche se un consiglio bisogna darlo a qualche ministro - che abusa di post, video e messaggini, occupandosi di tutto -: prima di dire che fatti come questo rendono urgente una riforma della giustizia, un minimo di conoscenza sarebbe opportuno averla. Perché un conto è riformare la giustizia, un altro è fare sì che dalle condanne o dalle assoluzioni la coscienza collettiva faccia tesoro.
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