Radar puntati, ambasciatori convocati e ombre su Taiwan: perché lo scontro nei cieli preoccupa l’Indo-Pacifico.
In meno di tre minuti, a oltre dieci chilometri d’altitudine, un gesto tecnico ha fatto fare un salto di qualità alla crisi tra
Cina e Giappone: secondo Tokyo, i caccia cinesi J-15 decollati dalla portaerei Liaoning hanno
attivato il radar di tiro sui caccia giapponesi F-15 che li stavano sorvegliando a sud-est di Okinawa.
Un’azione ripetuta una seconda volta, per circa mezz’ora, contro un altro F-15 nella stessa zona.
Per i militari non è un dettaglio tecnico: il radar di tiro non “guarda” genericamente il cielo, ma aggancia un bersaglio come
se fosse il preludio a un lancio di missile. Non è stato sparato alcun colpo, ma il segnale politico è chiarissimo:
la rivalità tra Pechino e Tokyo nel quadrante più delicato dell’Indo-Pacifico ha fatto un passo in avanti verso lo scontro aperto.
Che cosa è successo sopra Okinawa
Secondo il ministero della Difesa giapponese, il 6 dicembre 2025 due J-15 cinesi sono decollati dalla portaerei Liaoning,
impegnata in un ciclo intenso di esercitazioni – circa cento tra decolli e appontaggi di caccia ed elicotteri in due giorni –
tra Okinawa e l’isola di Minami-Daito, in acque internazionali ma a ridosso delle rotte giapponesi e delle linee di comunicazione
verso Taiwan.
I caccia della Japan Air Self-Defense Force (JASDF) erano stati fatti decollare per monitorare il gruppo navale cinese e
verificare che non sconfinasse nello spazio aereo giapponese. In quella fase, racconta Tokyo, il primo J-15 avrebbe illuminato
con il radar di tiro un F-15 per circa tre minuti nel tardo pomeriggio; circa due ore dopo, un secondo J-15 avrebbe inquadrato
con lo stesso sistema un altro F-15 per oltre mezz’ora.
Non risultano danni ai velivoli né manovre d’emergenza, ma la Difesa giapponese sottolinea che un radar lock prolungato
costringe il pilota a considerare la possibilità di un attacco e ad adeguare di conseguenza la condotta del volo,
aumentando il rischio di incidenti e di escalation.
La versione di Tokyo: “atto pericoloso e inaccettabile”
Il ministro della Difesa Shinjiro Koizumi ha convocato con urgenza la stampa nella notte tra il 6 e il 7 dicembre,
definendo l’episodio un “atto pericoloso” che va oltre quanto necessario per la sicurezza del volo e una condotta
“estremamente deplorevole”. Tokyo ha presentato una protesta formale a Pechino e chiesto misure per evitare
che episodi simili si ripetano.
La premier Sanae Takaichi ha promesso una risposta “ferma e calma”, annunciando il rafforzamento delle capacità
di sorveglianza sulle attività militari cinesi in tutta l’area. Il viceministro degli Esteri ha convocato l’ambasciatore cinese
a Tokyo, mentre – in uno schema speculare – il diplomatico giapponese è stato chiamato al ministero degli Esteri a Pechino,
con scambi di proteste e contro-proteste.
Sul piano interno, l’episodio fornisce alla premier un argomento ulteriore per difendere la linea di riarmo graduale e
di ampliamento del raggio d’azione delle Forze di autodifesa, già al centro di un acceso dibattito nel Paese.
La contro-narrazione di Pechino: “il colpevole che fa la vittima”
La reazione cinese è stata immediata e speculare. Il portavoce del ministero della Difesa e i media statali hanno accusato
il Giappone di aver “disturbato maliziosamente” un’esercitazione considerata da Pechino “normale, legale e pienamente
conforme al diritto internazionale” nella zona a est dello stretto di Miyako.
Secondo Pechino, i caccia giapponesi sarebbero entrati ripetutamente nelle aree di addestramento annunciate, avvicinandosi
in modo pericoloso ai velivoli e alle navi cinesi, con attività di sorveglianza ravvicinata considerate “provocatorie”.
In questa lettura, la denuncia di Tokyo sarebbe “un classico caso di chi commette l’atto e poi accusa l’altro”,
per usare l’espressione rilanciata dalla stampa ufficiale cinese.
Anche il ministero degli Esteri cinese ha difeso l’operato dei propri piloti, sostenendo che l’impiego di radar in fase
di addestramento è una pratica standard per tutte le aeronautiche che operano da portaerei e che la responsabilità
del deterioramento della situazione ricade su Tokyo.
Taiwan sullo sfondo: la miccia che alimenta la crisi
L’incidente non nasce nel vuoto. Da settimane i rapporti tra Cina e Giappone sono entrati in una nuova fase di
crisi diplomatica dopo le dichiarazioni della premier Takaichi, che ha suggerito un possibile intervento militare
giapponese nel caso di un attacco cinese a Taiwan che metta a rischio la sicurezza nazionale.
Pechino ha bollato quelle frasi come una intrusione negli “affari interni” cinesi e ha reagito con una raffica di
contromisure: avvertimenti ai propri cittadini a non viaggiare in Giappone, irrigidimento dei controlli su alcuni prodotti
importati e un’intensificazione della presenza militare attorno alle isole contese e lungo le rotte verso Taiwan.
A sua volta Tokyo sostiene che il potenziamento delle basi e dei sistemi d’arma – anche di capacità offensive a lungo raggio –
serva a “ridurre la probabilità di un attacco armato” rendendo più costosa qualsiasi avventura militare altrui.
È il cuore del dibattito sulla deterrenza: per il Giappone si tratta di scoraggiare le ambizioni cinesi,
per la Cina è una prova della volontà giapponese di “normalizzarsi” come potenza militare.
Il ruolo della portaerei Liaoning e del gruppo navale cinese
Le manovre della Liaoning, scortata da tre o quattro cacciatorpediniere lanciamissili, sono un tassello di un
disegno più ampio: mostrare che la marina cinese è in grado di operare con i propri gruppi d’attacco a portaerei ben
oltre la cosiddetta “prima catena di isole”, cioè quel cordone di arcipelaghi – da Okinawa a Taiwan, fino alle Filippine –
che storicamente ha limitato la proiezione di forza di Pechino.
Negli ultimi anni la Liaoning e le altre portaerei cinesi hanno moltiplicato le sortite nel Pacifico occidentale, spesso
seguite passo passo da aerei da pattugliamento e navi giapponesi. Già a giugno 2025 la Liaoning aveva condotto una lunga
campagna di addestramento, con centinaia di decolli e appontaggi, seguita da vicino dalla marina giapponese.
Le esercitazioni di questi giorni, tra Okinawa e l’isola di Kikai, sono l’ennesimo segnale che Pechino considera la zona
spazio operativo “normale”, non più periferia.
Non è la prima volta: i precedenti pericolosi dei radar di tiro
Il ricorso al radar di tiro contro assetti giapponesi non è del tutto inedito nel teatro Asia-Pacifico, anche se finora
Tokyo ha usato molta cautela nel renderlo pubblico. Nelle analisi di questi giorni vengono ricordati episodi di
illuminazione radar già nel 2013, oltre ad altri incontri ravvicinati con velivoli cinesi e russi nel 2016 e nel giugno 2025.
Più in generale, i radar lock sono stati al centro di altre crisi regionali, come la disputa tra Giappone e Corea del Sud
del 2018, quando Tokyo accusò una nave sudcoreana di aver puntato il radar di tiro su un aereo di pattugliamento giapponese.
In quel caso si arrivò a un lungo braccio di ferro diplomatico prima di concordare misure per evitare nuovi incidenti.
La lezione di quegli episodi è chiara: anche senza sparare un colpo, i sensori possono portare i Paesi sull’orlo della crisi.
Per questo gli analisti considerano le illuminazioni radar su Okinawa un salto di qualità rispetto ai “semplici” sorvoli o
alle incursioni nelle zone di identificazione aerea.
Le reazioni internazionali: alleati in allerta
Il nuovo incidente arriva mentre gli Stati Uniti – alleato chiave del Giappone – osservano con attenzione, mantenendo per ora
un profilo pubblico prudente ma rafforzando la cooperazione militare e l’intelligence condivisa con Tokyo.
Dal Pacifico sud-occidentale arrivano invece parole più dirette: l’Australia ha espresso “profonda preoccupazione” per
il comportamento dei caccia cinesi e ha ribadito il sostegno al Giappone nella difesa di un ordine regionale basato su regole.
Sul fronte diplomatico, Pechino e Tokyo continuano a sfidarsi anche nelle sedi multilaterali, dalle Nazioni Unite ai forum
regionali, con accuse reciproche: da un lato il Giappone denuncia l’uso della pressione militare sulla regione,
dall’altro la Cina dipinge il rafforzamento militare giapponese e l’asse con Washington come una minaccia diretta
alla propria sicurezza.
Perché Okinawa è il punto più caldo dell’Indo-Pacifico
L’arcipelago di Okinawa è una cerniera strategica: ospita importanti basi statunitensi e giapponesi, controlla gli accessi
dallo stretto di Miyako – uno dei corridoi di uscita principali per la marina cinese verso il Pacifico libero da strette
costiere – ed è a breve distanza aerea da Taiwan e dalle isole contese del Mar Cinese Orientale.
Ogni volta che navi e aerei cinesi attraversano questi choke-point, la JASDF decolla per l’intercettazione “di routine”,
osservando e documentando rotte e profili di volo. È un copione rodato che però, come dimostrano i radar di tiro puntati
sugli F-15, può diventare pericolosamente instabile se una delle due parti decide di alzare il livello del confronto.
Il rischio di errore di calcolo
Sul piano operativo, un radar lock prolungato riduce i margini di ambiguità: chi lo subisce deve assumere che l’altro
stia valutando seriamente l’ipotesi di impiegare armamenti. Più spesso, però, si tratta di segnali politici mandati
attraverso i radar, un linguaggio che fa leva sulla paura dell’escalation per ottenere vantaggi nella partita diplomatica.
Il problema, insistono molti analisti, è che più aumenta la frequenza di questi episodi, più cresce il rischio di un
errore di calcolo: un pilota che interpreta male una manovra, un comandante che decide di rispondere in modo speculare,
un radar che viene scambiato per un reale preparativo di attacco. In uno spazio aereo affollato da caccia, droni,
aerei da pattugliamento e piattaforme radar, basta poco per trasformare un “messaggio” in incidente.
Cina e Giappone hanno avviato negli ultimi anni alcuni canali di comunicazione diretta tra le rispettive difese,
ma la crisi attuale dimostra quanto siano ancora fragili. Se i radar continuano a sostituire le parole,
il cielo sopra Okinawa resterà il punto più esposto della rivalità tra le due potenze asiatiche.