(Foto: Uno dei tavoli convocati per la vicenda ex Ilva).
Corteo e pressing, “non possiamo aspettare i tempi della politica”
Un presidio snello ma combattivo si è radunato nel pomeriggio a due passi da palazzo Chigi. Delegazioni di Fim, Fiom e Uilm con lavoratori da Taranto e dagli altri siti del gruppo hanno scelto Roma nonostante il rinvio del tavolo: “non c’è più tempo” è lo slogan che ha fatto da filo rosso alla giornata. La convocazione ufficiale è slittata all’11 novembre; i sindacati hanno deciso di esserci lo stesso, chiedendo una risposta politica e non solo tecnica. Dopo il presidio, una delegazione è stata ricevuta a Largo Chigi da funzionari della Presidenza del Consiglio.
“Serve un atto di governo, non rinvii”
Il leader Uilm Rocco Palombella ha affondato il colpo: “Il governo deve dirci cosa intende fare: i lavoratori non possono restare in cassa integrazione a tempo indeterminato”. Per Loris Scarpa (Fiom) la fotografia è netta: “La condizione degli stabilimenti è di una gravità assoluta: mancano risorse e manutenzioni, c’è rischio di fermata”. Ferdinando Uliano (Fim) ha chiesto una scelta chiara: “Lo Stato si assuma la responsabilità di una ripartenza vera. Non possiamo permetterci di spegnere Taranto”.
I numeri della crisi
Acciaierie d’Italia è la più grande partita industriale del Paese. I diretti sono circa 10.700, a cui si aggiungono oltre 1.500 lavoratori di Ilva in amministrazione straordinaria e migliaia nell’indotto. Quattromilacinquecento i dipendenti coinvolti da settimane in cassa integrazione. La produzione viaggia al minimo tecnico in diversi impianti. Un impianto siderurgico che si ferma a lungo si degrada e ripartirlo costa molto più che tenerlo in marcia.
Il nodo decarbonizzazione
La decarbonizzazione procede tra spostamenti di capitoli di spesa e rimodulazioni. Il miliardo per DRI d’Italia è stato riallineato fuori dal Pnrr per evitare la scadenza del 2026, ma restano da definire coperture stabili, scelte tecnologiche e cronoprogramma. Senza una cornice finanziaria ferma e decisioni definitive, la transizione rischia di restare sulla carta.
Gli interlocutori e la regia pubblica
Questa vertenza è sociale, industriale ed energetica. Nel perimetro pubblico allargato siedono attori in grado di sostenere energia, forniture, logistica e ordini. I sindacati chiedono che palazzo Chigi agisca da azionista-stratega, mettendo in fila scelte su energia, forni elettrici, preridotto, fornitori e tempi.
La cornice politica
Dopo il round d’agosto con i ministri competenti e i commissari straordinari, il calendario di ottobre prevedeva un nuovo confronto politico. L’improvviso rinvio ha esasperato gli animi, spingendo le sigle a “autoconvocarsi” sotto la sede del governo. Obiettivo dichiarato: impegni verificabili, con date e strumenti.
I dossier aperti
Resta sullo sfondo la cessione degli asset: il bando ha raccolto più proposte, comprese offerte estere con combinazioni occupazionali molto dure. Le confederazioni rifiutano “piani lacrime e sangue” e indicano due priorità non negoziabili: salvaguardia del lavoro e rispetto ambientale, con un cronoprogramma reale su decarbonizzazione e manutenzioni.
Cosa chiedono per l’11 novembre
- Un atto politico con regia pubblica e strumenti finanziari.
- Garanzie occupazionali e stop all’uso strutturale della CIG.
- Calendario vincolante su manutenzioni, energia e investimenti.
- Decisione tecnica definitiva sul percorso di decarbonizzazione.
- Trasparenza su partner/cessione e requisiti industriali.
La posta in gioco
Qui non c’è solo una fabbrica. C’è la filiera italiana dell’acciaio, la sicurezza industriale del Paese e la credibilità della transizione. Se lo Stato decide, la siderurgia rinasce. Se lo Stato esita, il costo lo pagheranno territori, imprese e manifattura.