Un quinto dell’umanità vive in aree dove i raccolti calano. La Fao avverte: invertire il degrado del suolo è possibile e conviene. Rotazioni, coperture vegetali e politiche mirate possono riportare cibo e reddito nelle campagne.
Il pianeta mangia meno perché la terra si sta ammalando. È il messaggio, crudo e documentato, che arriva dal nuovo rapporto della Fao: circa 1,7 miliardi di persone vivono in zone dove le rese agricole sono in calo per degrado del suolo di origine umana. In media, parliamo di un –10% sui raccolti: deforestazione, sovrapascolo, erosione e pratiche colturali sbagliate stanno erodendo fertilità e redditi, con effetti a catena su prezzi, insicurezza alimentare e migrazioni.
“È un debito che stiamo trasferendo alle generazioni future”, avverte il direttore generale Qu Dongyu, richiamando governi e filiere a un cambio di passo.
Dove il terreno cede, crolla tutta la filiera
Quando il suolo perde materia organica o si salinizza, ogni ciclo colturale rende meno: meno produzione significa meno entrate per i piccoli agricoltori, più povertà rurale e una pressione al rialzo sui prezzi del cibo nelle città. Grandi aree dell’Asia e dell’Africa portano il carico più pesante, ma nessun continente è al riparo. Una parte del fenomeno è storicamente accumulata, un’altra è alimentata da scelte di uso del suolo miopi e dall’avanzare dei climi più aridi.
La buona notizia: invertire il 10% del degrado sfama milioni
La via d’uscita c’è. Se si invertisse anche solo una quota del degrado sui seminativi, recuperando suoli con pratiche di gestione sostenibile — rotazioni, colture di copertura, lavorazioni conservative, terrazzamenti dove servono e controllo del pascolo — si potrebbe riportare in tavola cibo per oltre cento milioni di persone ogni anno e rafforzare la resilienza degli ecosistemi agricoli.
Il nodo politico: regole, incentivi e condizionalità
Gli strumenti sono noti: strategie integrate d’uso del suolo e politiche pubbliche che smettano di finanziare la degradazione. La ricetta comprende controlli sulla deforestazione nelle catene di fornitura, incentivi a chi rigenera (pagamenti per servizi ecosistemici, crediti d’imposta verdi) e condizionalità: sussidi legati a risultati ambientali misurabili, come meno erosione e più carbonio organico nel terreno.
Perché agire adesso (e dove partire)
Rinviare è costoso: il degrado avanza e l’aridità si espande, comprimendo Pil e occupazione nelle regioni esposte. Priorità operative: mappare i suoli critici a livello di azienda agricola; canalizzare finanza climatica verso progetti di rigenerazione; diffondere sementi e pratiche adatte a suoli stanchi o salini; rafforzare i servizi tecnici per trasferire innovazione in campo.
Il fronte tecnico: dal carbonio organico alle coperture
La rigenerazione passa da poche regole chiare: aumentare il carbonio organico con residui colturali, letami maturi e agroforestazione; proteggere il suolo nudo con cover crops; gestire l’acqua per ridurre salinità e compattazione; diversificare per interrompere i cicli di parassiti e malerbe. “Produrre cibo senza consumare la base naturale che lo rende possibile” non è uno slogan: è un metodo.
La posta in gioco: sicurezza alimentare e stabilità
Suoli vivi significano rese più stabili, redditi agricoli meno volatili, prezzi più prevedibili lungo la catena e meno spinta a migrare per fame o lavoro. Se i governi adotteranno misure concrete, l’effetto leva sarà visibile in pochi anni — prima di tutto dove oggi il calo di resa morde più forte.