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Addio a Totò Schillaci, l’eroe delle nostre “Notti Magiche”

- di: Barbara Leone
 
Lo ammetto: di calcio non capisco una mazza. O meglio, capire capisco pure, ma non mi appassiona, non mi emoziona. Anzi, a dirla tutta, per certi versi mi irrita. Non è il calcio in quanto gioco a darmi fastidio, ma tutto quel mondo che vi ruota attorno. Trovo quasi assurdo coprire d’oro dei ragazzotti, spesso arrogantelli e viziati, che inseguono un pallone in mutande su un campo erboso, mentre ci sono atleti di altre discipline che si fanno un mazzo incredibile, con lo stesso impegno, se non di più, senza però avere la minima considerazione. È un mondo di contraddizioni, dove l’equità sembra non trovare posto. Certo, tutti diventiamo esperti di atletica quando ci sono le Olimpiadi o di tennis quando Sinner vince un torneo. Ma è nulla di paragonabile a quel rincoglionimento delirante collettivo che si scatena per una partita di calcio.

E però non è sempre stato così per me. Quando ero ragazzina, il calcio aveva un fascino diverso. I calciatori si chiamavano Scirea, Tardelli, Zoff, Platini e, ovviamente, Maradona. Altra classe, altra testa, altri piedi. Forse ero io ad essere più ingenua, o forse il calcio era più “puro”. Le partite si giocavano, vivaddio, solo la domenica e il rituale del 90° minuto di Paolo Valenti, con le voci inconfondibili di Sandro Ciotti ed Enrico Ameri alla radiocronaca, era un appuntamento fisso. E poi c'era il Processo del Lunedì di Aldo Biscardi, con le sue discussioni animate e surreali, in cui a parlare di calcio erano personaggi del calibro di Omar Sivori e Carmelo Bene. Il calcio, allora, sembrava una cosa più genuina, più vicina alla gente, persino nella sua stravaganza. E poi c’era lei: la mitica schedina del Totocalcio al sabato sera… 1, X, 2. Da annerire bene bene con la penna, rigorosamente Bic, sennò la macchinetta non la prendeva correttamente. Un piccolo rito che univa famiglie e amici. L'apice della mia passione per il calcio, però, fu Italia ‘90. Quelle “Notti Magiche” restano incastonate nello scrigno del cuore, come una melodia struggente e nostalgica che non smette mai di risuonare. E il merito fu quasi tutto di un uomo: Totò Schillaci. Un nome che nessuno conosceva fino a quel momento, ma che in soli quindici giorni diventò leggenda. I suoi gol, i suoi occhi spiritati, pieni di desiderio e determinazione, fecero sognare un'intera nazione. Perché lui non era solo un calciatore: era il simbolo di un’Italia in cerca di riscatto. E che ce l’aveva fatta. Un ragazzo del popolo, venuto dal quartiere CEP di Palermo, figlio di un muratore che nella vita aveva fatto di tutto: il gommista, il garzone di pasticceria, l’ambulante... Era uno di noi, che si era fatto strada con sudore e sacrifici. Poi arrivò il Messina, la sua piccola grande occasione. E da lì, la Juventus e infine la Nazionale. Quando il ct Azeglio Vicini decise di dargli una chance, forse nessuno si aspettava molto da lui. Ma lui, maglia numero 19, fece l’impensabile: sei gol strabilianti, che gli valsero il titolo di capocannoniere di quel Mondiale. Era l’incarnazione di un sogno che si realizzava, la dimostrazione che con la grinta e la determinazione, anche l’impossibile può accadere.

Il resto è storia. L’Italia non vinse i Mondiali. Arrivammo terzi, perdendo in semifinale contro l’Argentina di Maradona (mica pizza e fichi!). Che, a sua volta, fu sconfitta in finale dalla Germania dell’Ovest, in un'epoca in cui esisteva ancora la divisione tra Est e Ovest. Ma tutto questo, per noi italiani, passò in secondo piano. Quel Mondiale rimarrà per sempre nella memoria collettiva come il Mondiale di Totò Schillaci. Il ragazzo del CEP che, con la sua semplicità e la sua passione, ci fece sognare sotto il cielo di un’estate italiana. Un’estate dal sapore dolce-amaro, in un malinconico mix di nostalgia e orgoglio. Le gesta di Schillaci, con quel suo volto segnato dalla fatica e dalla fierezza, sono la testimonianza di come il calcio, quando riesce a toccare le corde dell’anima, può diventare molto più di un semplice gioco. Può trasformarsi in un simbolo di speranza, di riscatto, di passione. Perché in fondo, è proprio questo il potere dello sport: quello di unire le persone, di farci sentire parte di qualcosa di più grande, di farci sognare insieme, anche solo per una notte. Magica, però.
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