Le università da luogo di crescita, cultura e confronto, ridotte a simbolo dell'intolleranza

- di: Redazione
 
Per la maggioranza di coloro che le hanno frequentate, per poco o sino alla fine del percorso didattico, le aule dell'università sono state il luogo della crescita personale e di cultura, in cui il confronto era - forse lo è ancora - lo strumento per migliorare e migliorarsi.
Ma, da qualche mese a questa parte (l'inizio, su per giù, coincide con la risposta militare di Gerusalemme all'attacco del 7 ottobre scorso per mano dei miliziani di Hamas), a regnare è altro, è l'intolleranza, è la facile operazione di mischiare un Paese con chi lo guida, facendo di Israele un obiettivo di contestazioni, sicuramente non solo in Italia. Come confermano proteste e contestazioni che stanno colpendo, in molti Paesi, chi viene additato al pubblico ludibrio solo per essere ebreo, che non significa essere israeliano e, quindi, sostenitore di un governo che in patria è ai minimi livelli di consenso.

Le università da luogo di crescita, cultura e confronto, ridotte a simbolo dell'intolleranza

I segnali dell'insorgere di questo sentimento in Italia c'erano da tempo, ma oggi la platea che è stata scelta da chi se ne fa sostenitore è passata dalle strade alle università, dove l'esecrazione per quello che Israele sta facendo con le armi, per volontà del suo governo, sta travolgendo il caposaldo delle convivenza civile: il confronto, che non è sopraffazione, che non è impedire a chicchessia di esprimere il suo punto di vista.
Come accaduto a Maurizio Molinari e David Parenzo, ai quali è stato negato il diritto a partecipare a eventi (in atenei di Napoli e Roma) perché ebrei, come se l'origine - culturale e religiosa - possa essere ostativa all'espressione delle proprie idee.

Ma questo modo di contrastare tutto ciò che, per i contestatori, riporta a Israele, ha tracimato dalla normale e talvolta anche troppo vivace dialettica che riporta alla situazione del Medio Oriente.
Come lo comprovano altri episodi in cui anche solo parlare di Israele diventa occasione per urlare, prevaricare, farsi vessilliferi di una violenza indiretta, quella che per paura impedisce di fare qualcosa, anche solo parlare.
A Firenze, a conferma di quanto possa essere ignorante il preconcetto politico, è stata contestata persino la presentazione di un libro su Golda Meir (scritto dalla giornalista Elisabetta Fiorito), che, socialista, fu primo ministro di Israele in un momento in cui le scelte che prese, di fatto, non avevano alternative.

Ma questo è ancora niente rispetto a quel che è accaduto nelle ultime ore a Torino, la cui l'Università ha deciso, con il suo senato accademico, di non partecipare al bando del Ministero degli Esteri per una cooperazione scientifica con Israele, ''visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza''.
Senza, a quel che pare, menzionare nel documento di bocciatura del bando del Mae da cosa sia stata generata la situazione di ''guerra a Gaza''.

Certo, resta il dramma che stanno vivendo milioni di palestinesi, ma la determinazione del senato accademico dell'università di Torino sembra fare proprie le tesi dei collettivi studenteschi che, facendo irruzione nella sala dove era in corso una riunione dell'organismo dell'ateneo, hanno espresso la loro opposizione a qualsiasi cosa comporti un rapporto con Israele, anche se si tratta di scienza.
Al netto del diritto di chicchessia di dire come la pensa su un argomento, qui si è andati ben oltre, perché la decisione del senato accademico di Torino lascia intendere che esso si sia piegato al dissenso di una componente degli studenti - nemmeno tutti -, facendo quindi dell'ateneo un soggetto politico. Cosa che non dovrebbe essere, anche se la storia ha insegnato l'esatto contrario.
Ora ci aspettiamo che l'università di Torino adotti lo stesso criterio di giudizio quando si troverà davanti ad altri bandi che riguardano Paesi in cui il concetto di democrazia è confinato nei libri di testo e i diritti di tutti sono calpestati.
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