Nord sotto assedio, Sud in uscita: senza un patto nazionale saltano bilanci, personale e diritti. Ecco perché la mobilità sanitaria cresce, chi ci guadagna, chi perde e cosa serve per fermare l’emorragia.
La cartina della sanità italiana racconta una storia di pazienti in viaggio: reparti d’eccellenza presi d’assalto nelle regioni più attrattive e ospedali periferici che faticano a trattenere i propri assistiti. Il fenomeno della mobilità interregionale non è più una valvola fisiologica ma un moltiplicatore di diseguaglianze: sposta miliardi, svuota i reparti dove la domanda nasce e satura quelli dove l’offerta è migliore.
Perché l’onda è cresciuta
Non c’è una sola causa ma un intreccio: liste d’attesa troppo lunghe in molte aree, carenza strutturale di personale (in particolare infermieri e tecnici), investimenti concentrati su pochi poli, capacità organizzativa diseguale. La conseguenza è una domanda crescente anche per prestazioni a bassa complessità, non solo per quelle altamente specialistiche. Quando anche un’ecografia o una protesi richiedono mesi, il paziente prende il treno.
I numeri che pesano sui bilanci
Negli ultimi esercizi la mobilità ha generato centinaia di migliaia di ricoveri extra-regione e flussi finanziari nell’ordine di miliardi di euro, con trasferimenti netti dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord. Le regioni più attrattive restano Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, che raccolgono pazienti per oncologia, ortopedia (protesi) e interventi complessi. Il rovescio della medaglia: le regioni a saldo negativo vedono risorse uscire e una progressiva perdita di fiducia nel sistema locale.
Le voci dal campo
“La mobilità sanitaria interregionale è in forte aumento e sta mettendo sotto pressione il sistema. Serve un grande patto nazionale” — Michele de Pascale, presidente della Regione Emilia-Romagna.
“Da noi la pressione è ancora più problematica: se non si modifica il modello, i soldi saranno sempre insufficienti” — Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia.
La linea del governo chiama in causa uguaglianza e efficienza. “Quando un cittadino sale su un treno per farsi operare a centinaia di chilometri non è mobilità sanitaria: è la sconfitta di un’intera nazione” — Orazio Schillaci, ministro della Salute.
Che cosa serve davvero
Un patto nazionale deve tenere insieme tre leve: capitale umano, organizzazione, programmazione. Non basta spostare budget: occorre stabilizzare e attrarre infermieri e professionisti con percorsi rapidi, indennità dedicate ai reparti ad alta pressione, e un piano di produttività che premi chi riduce le liste d’attesa senza abbassare la qualità.
Seconda leva: presa in carico territoriale. Le case di comunità e i presidi di prossimità hanno senso se funzionano come “centrali operative” — agenda unica, presa in carico proattiva dei cronici, diagnostica di base che evita il ricovero improprio, telemedicina che riduce gli spostamenti. Terza leva: una rete clinica interregionale per le patologie complesse con hub & spoke chiari, volumi minimi e trasparenza degli esiti.
Dove intervenire subito
- Liste d’attesa: agende integrate pubblico-privato accreditato, orari estesi, monitoraggio settimanale, obbligo di reindirizzo entro tempi massimi con tariffa invariata.
- Personale: reclutamento straordinario di infermieri, revisione dei tetti di spesa e incentivi su turni disagiati e reparti ad alta attrazione.
- Dati e trasparenza: cruscotto nazionale sugli esiti e sui tempi, con indicatori comparabili e pubblici per orientare i pazienti vicino a casa quando possibile.
- Acquisti e tecnologie: piattaforme di diagnostica condivise, teleconsulto interregionale obbligatorio per seconde opinioni e follow-up post-intervento.
Effetti collaterali da non ignorare
Ogni paziente in viaggio comporta costi indiretti — trasporti, ferie dei caregiver, affitti brevi — che lo Stato non misura a sufficienza. Nel frattempo, gli ospedali attrattivi rischiano il congestionamento: sale operatorie sature, turni straordinari, rimbalzo sulle urgenze. È il paradosso: il successo di pochi può trasformarsi in collo di bottiglia per tutti.
Il punto politico
La mobilità non è un incidente, è un meccanismo di sistema. Se diventa l’unico modo per accedere in tempi ragionevoli a prestazioni comuni, allora mina il principio cardine del SSN: uguali diritti per cittadini diversi. Non esiste soluzione senza una regia nazionale che ricomponga competenze e risorse, indirizzi gli investimenti e premi chi riduce davvero gli spostamenti inutili.