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Referendum sul lavoro, la resa dei conti che spacca la politica: tra nostalgia dell’articolo 18 e paura di fermare l’impresa

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Referendum sul lavoro, la resa dei conti che spacca la politica: tra nostalgia dell’articolo 18 e paura di fermare l’impresa

Nella lunga estate del referendum sul lavoro, l’Italia politica si ritrova divisa come forse non accadeva da tempo. Non è solo una questione di diritti, di leggi, di statuti da riformare o abrogare. È una resa dei conti tra visioni opposte del Paese, tra chi guarda al passato con la speranza di riprendersi una stagione perduta di tutele e chi teme che tornare indietro significhi frenare la crescita. Il voto dell’8 e 9 giugno, nato sull’onda della campagna promossa dalla CGIL e firmato da un milione e mezzo di cittadini, si è trasformato in un campo di battaglia ideologico. E anche tattico. Perché dietro ogni dichiarazione, dietro ogni invito ad andare o non andare a votare, si muovono calcoli, paure, identità in bilico.

Referendum sul lavoro, la resa dei conti che spacca la politica

Al centro c’è il Jobs Act, la riforma del lavoro del 2015 che ha segnato l’apice del renzismo e il punto di rottura con una parte profonda della sinistra. Fu quella legge a cancellare l’articolo 18 per i neoassunti, sostituendolo con un indennizzo monetario a fronte di licenziamenti illegittimi. Una scelta che all’epoca fu presentata come modernizzazione, risposta all’Europa, incentivo alle assunzioni. Ma che, per altri, ha rappresentato una capitolazione: la perdita di un principio, quello del reintegro, che per generazioni è stato simbolo della forza operaia e dell’equilibrio tra capitale e lavoro.

Un voto che riapre vecchie fratture
Ora si torna a votare. Non per scrivere una nuova riforma, ma per dire sì o no a una abrogazione. E qui la partita si complica. Perché se il fronte del Sì ha ritrovato nel tempo una coesione guidata dalla CGIL e da una parte della sinistra, il campo del No appare più frammentato. In molti preferiscono tacere. O suggerire, sottovoce, l’astensione. A destra, nei corridoi della maggioranza, la parola d’ordine è chiara: disinnescare il voto, lasciare che il referendum fallisca per mancanza di quorum. Ma farlo senza dirlo troppo, per evitare accuse di sabotaggio della democrazia diretta.

Renzi contro tutti, la sinistra si divide

E così il clima si fa denso di sottintesi. Matteo Renzi, ideatore della legge finita nel mirino, ha definito il referendum “un regalo alla destra”. Lo ha fatto con il tono di chi sa che questa consultazione rischia di riaprire ferite mai rimarginate nel suo campo. A sinistra, infatti, non tutto è semplice. La segretaria del PD Elly Schlein si è schierata per il Sì, in nome della giustizia sociale e di un riequilibrio necessario. Ma una parte significativa del suo partito, quella più legata alla tradizione riformista, spinge per lasciare libertà di voto. Per non spaccare il PD, certo, ma anche per non legarsi mani e piedi a un quesito che riporta indietro di dieci anni le lancette della sinistra di governo.

Astensione come strategia, quorum come rischio
Il referendum, dunque, si è fatto caso politico. E non solo perché tocca una materia delicata. Lo è perché obbliga tutti a uscire allo scoperto. Fratelli d’Italia osserva da lontano, evitando di sporcarsi le mani. La Lega si adegua. Forza Italia guarda altrove. E intanto l’AVS, l’Alleanza Verdi e Sinistra, prova a farne un test di partecipazione, gridando contro chi invita a non votare. Lo scenario più realistico, al momento, è che tutto si giochi sul filo del quorum. Riusciranno i promotori a portare al voto almeno la metà più uno degli italiani? È una scommessa sulla mobilitazione, sulla memoria, sulla capacità di riattivare un legame tra la gente e i suoi diritti.

Le parole che contano, i silenzi che pesano
C’è poi il peso delle parole. Quelle di chi, come Maurizio Landini, ha fatto del referendum una battaglia personale e politica, quasi un riscatto per anni di sconfitte. Quelle di chi, come Carlo Calenda, invita a guardare avanti e non indietro, mettendo in guardia da un ritorno a rigidità che – secondo lui – danneggerebbero soprattutto i giovani e le imprese. Quelle, infine, dei lavoratori. Che non si vedono spesso in TV, ma che in molte fabbriche, nei call center, nei supermercati, si interrogano sul senso di un voto che potrebbe cambiare – o non cambiare – le regole del gioco.

Uno specchio del Paese che verrà
In questo clima, il referendum diventa specchio del tempo. C’è chi sogna di riscrivere la storia, chi ha paura di tornare indietro, chi pensa solo a sopravvivere in un mercato del lavoro che continua a cambiare. Ma anche chi spera che, finalmente, si possa aprire una riflessione vera sulla qualità dell’occupazione, sulla stabilità, sulla dignità. Perché al di là dei tecnicismi giuridici, ciò che davvero è in discussione è il modello di società che vogliamo costruire.

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