Il referendum del prossimo giugno sul reintegro nel posto di lavoro apre una faglia che è prima di tutto culturale, prima ancora che giuridica o economica. Da una parte c’è il lavoratore che percepisce un progressivo indebolimento dei propri diritti: meno tutele, maggiore ricattabilità, una precarietà strutturale che si è fatta sistema. Dall’altra c’è chi osserva i dati aggregati del mercato del lavoro post-Jobs Act, che mostrano una moderata crescita dell’occupazione e una flessibilità maggiore nel turnover. Il punto, però, è che questa flessibilità non si è tradotta in mobilità sociale, né in stabilità retributiva. E questo è il nodo che il referendum riporta a galla.
Referendum e lavoro: una frattura tra economia reale e diritto del lavoro
Introdotto nel 2015 come una delle riforme cardine dell’allora governo Renzi, il Jobs Act aveva due obiettivi dichiarati: aumentare l’occupazione e ridurre la litigiosità legata ai licenziamenti. Sul primo versante, i numeri dell’Istat mostrano una crescita degli occupati, soprattutto nelle fasce più giovani e nei settori ad alta stagionalità. Ma a guardare bene, la qualità di quell’occupazione – misurata in termini di stabilità contrattuale e potere d’acquisto – è rimasta fragile. Sul secondo versante, il contenzioso giudiziario è diminuito, ma solo perché i lavoratori hanno avuto meno strumenti per impugnarlo. L’indennizzo ha reso più “conveniente” il licenziamento illegittimo per le imprese, riducendo il potere negoziale individuale. Di fatto, il lavoro è diventato più “liquido”, ma anche più solo.
Il reintegro come simbolo del patto sociale
La proposta referendaria non è solo tecnica. È un segnale di rottura. Ripristinare il reintegro nei contratti a tempo indeterminato significa rimettere al centro un’idea di stabilità come diritto e non come privilegio. Non a caso, l’articolo 18 è da sempre il simbolo di un’epoca in cui il lavoro era legato alla cittadinanza, alla comunità, alla costruzione di senso collettivo. I suoi detrattori parlano di “fossile giuridico”, inadatto al mondo del lavoro globalizzato e iper-competitivo. I suoi sostenitori lo considerano un argine contro l’arbitrio padronale. Ma al di là degli schieramenti ideologici, la questione resta: in un’economia in transizione, si può ancora parlare di diritti stabili?
Le imprese tra flessibilità e incertezza normativa
Dal lato delle imprese, il Jobs Act ha semplificato alcune dinamiche decisionali. La possibilità di gestire il personale con strumenti più flessibili ha dato maggiore reattività ai datori di lavoro, soprattutto nelle piccole e medie imprese. Tuttavia, l’assenza di un quadro stabile nel lungo periodo ha anche generato incertezza: il mercato del lavoro italiano è oggi frammentato in un mosaico di contratti, norme transitorie, eccezioni e deroghe. E l’eventuale ritorno all’articolo 18 rischia di aggiungere un ulteriore strato di discontinuità normativa. Le imprese chiedono regole chiare, non necessariamente più dure. Il problema non è l’esistenza del reintegro, ma l’imprevedibilità della cornice in cui operano.
Il tempo della scelta tra efficienza e giustizia sociale
Ciò che il referendum mette a nudo è la tensione irrisolta tra due esigenze: da un lato quella dell’efficienza economica, intesa come adattabilità delle strutture produttive a un contesto globale sempre più competitivo; dall’altro quella della giustizia sociale, intesa come tutela del più debole nel rapporto di lavoro. La politica economica degli ultimi dieci anni ha spesso oscillato tra questi due poli, senza riuscire a integrarli. Il risultato è un mercato del lavoro che funziona male per tutti: per le imprese che non trovano competenze adeguate, e per i lavoratori che non trovano sicurezza.
Il referendum, dunque, non è solo una consultazione abrogativa. È un termometro della frattura sociale tra chi si sente protetto e chi si sente esposto. Tra chi investe e chi sopravvive. E forse, in fondo, tra chi ha ancora voce e chi da troppo tempo non ne ha più.