Politecnico di Torino: un ateneo "piattaforma" in grande crescita, cuore pulsante di "Comunità, conoscenza e innovazione"

- di: Redazione
 
Un modello di università che ragioni a sistema, la scelta strategica di essere un Ateneo “piattaforma”, la convinzione che l’uomo debba essere il cuore creativo della tecnologia e non succube di essa, gli atenei che vanno concepiti come “propulsori sociali” e agire come tali, le caratteristiche dei progetti per la crescita basata sulla conoscenza, il tema della sostenibilità e della green economy inquadrato in quello di uno sviluppo sociale ed economico competitivo, la necessità di una nuova agenda industriale e sociale anche alla luce della crisi energetica, le ragioni dell’ottimo stato di forma del sistema universitario piemontese. Intervista al Magnifico Rettore del POLITECNICO di Torino, Prof. Guido Saracco.

Politecnico di Torino: parla il Magnifico Rettore, Prof. Guido Saracco

Professor Saracco, lei insiste spesso sul nuovo ruolo degli atenei in Italia e ha affermato che “serve un modello di università che ragioni a sistema”, rompendo le barriere dei politecnici che preparano solo tecnologi e le università solo gli umanisti. Insomma, i tecnici debbono diventare anche umanisti e gli umanisti anche tecnici. Quali passi avanti sono stati fatti in questo senso in Italia negli ultimi anni e quali, nello specifico, quelli compiuti dal POLITECNICO di Torino, che ha scelto di essere una Università “piattaforma”?
Relativamente pochi. Sin dalla formulazione della Strategia di Lisbona a inizio secolo si parla di ‘economia della conoscenza’ secondo cui politica, imprese e università dovrebbero collaborare strettamente per l’innovazione e lo sviluppo economico del Paese in un mondo globale e complesso. Le imprese necessitano di formazione, ricerca applicata e supporto a processi innovativi e, a volte, radicali cambi di rotta nei loro prodotti. La politica deve riappropriarsi di un ruolo di indirizzo delle politiche di sviluppo economico e sociale. Le Università partner essenziali per entrambi. Noi al POLITECNICO, con il piano strategico PoliTo4Impact, lo stiamo facendo oramai da cinque anni: formiamo i nostri ingegneri alla creatività e a conoscere a fondo i disagi sociali a cui devono porre rimedio con una iniezione di humanities nei loro processi formativi. Abbiamo fatto nascere diverse iniziative di ricerca applicata interdisciplinare, superando l’idea della verticalità disciplinare dei dipartimenti; insieme alle Fondazioni bancarie e al nostro incubatore abbiamo dato origine ad un ecosistema di innovazione che ha saputo attrarre una decina di acceleratori di impresa; coinvolgiamo la società in un festival come la Biennale Tecnologia affinché non smetta di crescere la fiducia nella scienza e nella tecnologia, affrontando e non temendo i cambiamenti. Stiamo insomma cambiando radicalmente pelle diventando l’università piattaforma.

Collegandoci alla domanda precedente, un tema che ritorna nei suoi interventi è che l’uomo debba essere il cuore creativo della tecnologia e non succube di essa. Quali sono le implicazioni più profonde, sul piano etico, morale, sociale ed economico di questa affermazione? Quali sono i rischi se, alla fine, dovesse avvenire il contrario?
L’ingegnere è associato erroneamente a uno stereotipo di noioso ‘nerd’. In realtà egli è un creativo per antonomasia. Le tecnologie sono il prodotto della creatività dell’uomo, proprio per questo chi le concepisce deve oggi farlo non solo con un occhio ai problemi che risolvono ma anche agli effetti sociali che inducono. Per questo i nostri ingegneri e architetti devono avere nelle loro corde i principi della filosofia morale, della sociologia, dell’economia e del diritto. Il caso dell’intelligenza artificiale è emblematico. Rivoluzionerà la società, ma proprio per questo dovrà essere oggetto di regolamentazione. Il Digital Markets Act e il Digital Service Act europei vanno in questa direzione. Se non avessero successo queste forme di controllo e dovessero essere attive le sole leggi del mercato, le big tech dilagherebbero. Questo sarebbe molto grave specialmente nella cosiddetta economia fondamentale, che include innanzitutto i servizi ‘provvidenziali’ (welfare, sanità, servizi di cura, istruzione e così via), nonché le attività che offrono beni e servizi ‘materiali’ (distribuzione di acqua e di energia in varie forme, trasporti pubblici, servizi bancari di prossimità, social housing, ecc.). Con la pandemia e la crisi geopolitica in corso abbiamo ben chiara l’importanza che in quest’ambito lo Stato recuperi un maggior controllo per il bene dei cittadini.

Allargando il discorso, la sua prolusione in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico 2022/2023 del POLITECNICO si intitola “Le Università come nuovi propulsori sociali”. Può fornirci alcuni dei tratti essenziali di questo ruolo propulsivo degli Atenei, anche per rimettere in moto il cosiddetto ‘ascensore sociale’ che ormai da anni funziona assai poco?
Credo che l’azione più importante che il POLITECNICO di Torino sta producendo in tal senso sia la creazione di “Comunità di Conoscenza e Innovazione” (CCI), ispirata alle Knowledge and Innovation Communities (KIC) promosse dall’Unione Europea. Le CCI sono luoghi fisici e in rete, pensati per promuovere a livello locale la collaborazione tra la tripla elica Università-Industria-Stato e i corpi intermedi tipici di ciascun territorio (fondazioni bancarie, associazioni datoriali, sindacali, ordini professionali, ecc.) in distretti tematici. Le linee d’intervento di una CCI sono sostanzialmente quattro: formazione, ricerca applicata e supporto all’innovazione, la condivisione di conoscenza con la cittadinanza. Per servire queste missioni trasferiamo fisicamente alcune nostre funzioni in quegli spazi, come sta accadendo nella Città della Manifattura 4.0 e della Mobilità Sostenibile a Torino Mirafiori; nella Città dell’Aerospazio e nella Città della Transizione Ecologica all’Environment Park. La vera grande opportunità delle CCI è la creazione di posti di lavoro. Faremo nascere start-up e favoriremo il reshoring di piccole e medie imprese al fianco dei capi filiera (Stellantis, Avio Aero, Leonardo, Thales Alenia Space, IREN, ecc.).

Ha affermato che “i progetti per la crescita basata sulla conoscenza dovranno valorizzare i motori di sviluppo locali, le migliori forze accademiche, imprenditoriali e sociali. Dobbiamo quindi augurarci che, come è stato con la rete dei Competence Centre nazionali, il nostro Paese riesca a coniugare una azione propulsiva sui territori delle Università da un lato, e un guida strategica dei nodi territoriali che risponda all’interesse nazionale”. Come fare, in concreto, in un Paese che un bel libro definisce ‘troppo lungo’, evitare che la crescita basata sulla conoscenza sia appannaggio solo di alcune realtà del Paese, lasciando alla deriva le altre?
L’Italia è un Paese che si è organizzato naturalmente secondo distretti produttivi tematici. Seppur meno numerose che negli altri Paesi di riferimento, le università pervadono il territorio nazionale. Il modello CCI potrebbe, e a nostro avviso dovrebbe, essere adottato dovunque avendo il coraggio di compiere scelte legate alle eccellenze e vocazioni di ciascun territorio. Perché questo possa accadere le università devono uscire dal loro ‘guscio’ e dedicarsi compiutamente (anche) all’impatto sociale. Per la prima volta nella sua storia nel 2022 l’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Università e della Ricerca ha valutato la Terza missione delle Università. A mio avviso questa leva deve essere progressivamente usata con più efficacia e, in questa direzione, occorrerà investire soprattutto nelle Università del Meridione perché diventino propulsori sociali nelle aree in maggiore difficoltà e contribuiscano, usando la sua metafora, ad accorciare le distanze nel nostro Paese.

Lei sostiene che le piattaforme che si fondano sul modello delle “Comunità di Conoscenza e Innovazione” (CCI), ispirato alle Knowledge and Innovation Communities (KIC) promosse dall’Unione Europea, permettono di affrontare tre problemi strutturali dell’Italia. Quali?
Oltre alla creazione di posti di lavoro, penso che le CCI possano favorire la riduzione dello skills mismatch, l’accelerazione della transizione scuola-lavoro e il trasferimento tecnologico dall’università alle imprese. Secondo le stime elaborate dall’OCSE, l’Italia è al primo posto per distanza tra competenze necessarie alle imprese e caratteristiche dei lavoratori in cerca di lavoro. Il mismatch non ha un solo colpevole, università ed enti formativi da un lato e imprese dall’altro devono evolvere, accettare le sfide del cambiamento continuo e dell’interdisciplinarità. Nelle CCI la co-progettazione dei percorsi formativi tra università e imprese favorirà la chiusura di queste distanze. Inoltre, i nuovi paradigmi didattici incentrati sullo studente che integreranno la didattica trasmissiva (i lavori di gruppo, le flipped classrooms, le sfide di innovazione seguite da tutor aziendali, ecc.) troveranno proprio nelle CCI un ambiente ideale per ottenere al contempo una riduzione dei tempi di conseguimento della laurea e una miglior preparazione dei giovani laureati alle dinamiche lavorative tipiche delle aziende. Infine, le tante imprese del nostro tessuto imprenditoriale sono spesso troppo piccole e prive di risorse per sviluppare innovazione radicale internamente. Per tramite delle università che si orientano alla collaborazione con le imprese, gli Enti Territoriali hanno più facilità nell’indirizzare all’innovazione risorse di origine europea (FESR) che il nostro Paese ha grande difficoltà a spendere.

Come va inquadrato il tema della sostenibilità e della green economy nell’ottica di uno sviluppo sociale ed economico competitivo? E come si affronta la grande sfida della crisi energetica per darle una risposta che sia duratura ed efficace? In altre parole, dalla crisi energetica a suo parere può nascere una nuova agenda industriale e sociale? In questo senso quali sono oggi i settori centrali per lo sviluppo industriale italiano?
La cosiddetta green economy sarà sempre più rilevante e foriera, al pari della rivoluzione digitale, di numerosi posti di lavoro qualificato. Non è un caso che l’iniziativa della Città della Transizione Ecologica a cui facevo riferimento poc’anzi sia stata fortemente voluta dalle piccole e medie imprese del territorio, per dare loro un importantissimo supporto nell’orientare alla sostenibilità i prodotti e i servizi che erogano. I capi-filiera oggi non accettano più componenti o servizi che non rispettino strettamente i crismi della sostenibilità. I nostri laureati difficilmente accettano di lavorare per imprese che non abbiano bilanci sociali chiaramente positivi, a partire dal rispetto dell’ambiente e delle risorse naturali. Questa rivoluzione dovrà essere pervasiva di ogni ambito industriale, esattamente come accade con la digitalizzazione. In questa direzione è quanto mai urgente che lo Stato detti la direzione e i tempi di una politica industriale italiana che miri alla autosufficienza energetica e che al contempo valorizzi le nostre forti competenze. Serve mettere al centro lo sviluppo delle cosiddette multiutility, a cui spetta il compito di guidare e ottimizzare diversi servizi dell’economia fondamentale (energia, acqua, rifiuti, mobilità sostenibile, ecc.) in modo olistico e sistemico.

Il POLITECNICO di Torino e il sistema universitario piemontese appaiono in gran forma, a cominciare dal fatto che da anni presentano un trend di crescita delle immatricolazioni, a differenze di quanto accade a molte università italiane. Quali le scelte cruciali alla base di queste performance?
Ciascuna Università piemontese ha punte di eccellenza nazionale. L’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo ha fondato in Italia la Laurea in Scienze Gastronomiche, oggi erogata in altre 14 università italiane, e accoglie più della metà dei propri studenti dall’estero grazie alla sua fama diffusa in tutto il mondo e il sostegno di 150 imprese e istituzioni. L’Università del Piemonte Orientale in poco più di vent’anni dal suo insediamento (1998) ha fatto balzare la percentuale di laureati del suo territorio di riferimento da 3,1% a 23,8% a testimonianza del formidabile ruolo di ascensore sociale che ha svolto. L’Università di Torino quest’anno ha registrato un significativo primato nella crescita delle immatricolazioni con un +13% continuando a eccellere nella nostra Regione per la qualità della ricerca scientifica con ben 8 dipartimenti accreditati come eccellenti su 27. Il POLITECNICO di Torino, oltre a un costante incremento dei suoi studenti, che ormai superano le 39mila unità, ha visto nello stesso arco temporale: i) il raddoppio del numero di dottorandi passati nello da 700 a quasi 1.500; ii) passare da 950 a 1.290 i propri ricercatori e professori; iii) passare da 878 a 1.068 i propri tecnici, amministrativi e bibliotecari; iv) aumentare la sua quota di auto-finanziamento che quest’anno lambirà i 100 milioni di euro. Alla base di questo sta una alleanza strutturale e una mancanza di eccessive sovrapposizioni. La Ministra Bernini ci ha definito un chiaro riferimento per l’Italia.

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