Pixar, 30 anni di animazione

- di: Claudia Loizzi
 

l Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino al 20 gennaio 2019, la mostra Pixar. 30 anni di animazione è stata ideata e organizzata dalla Pixar Animation Studios. 
T
ra gli indimenticabili titoli dei film possiamo ricordare Toy Story, Monsters & Co, Alla ricerca di Nemo, Gli Incredibili, Ratatouille, Insideout. Lungometraggi di successo internazionale che hanno contribuito a modificare nel pubblico il concetto stesso di film di animazione da semplice cartone animato a film vero e proprio che si avvale però del nuovo linguaggio digitale.
Ci spiega questa nuova fase Maria Grazia Mattei fondatrice e Presidente di Meet, centro internazionale per la cultura digitale e curatrice dell’edizione italiana della mostra Pixar. 30 anni di animazione. “La mostra celebra 30 anni di lavoro della Pixar, uno dei principali studi cinematografici al mondo, nato con John Lasseter e Steve Jobs, e che assieme a Disney ha sviluppato una traiettoria nuova: lungometraggi realizzati al computer attraverso l’uso della tecnologia digitale ed informatica.”

Il percorso della mostra evidenzia non solo una metodologia innovativa, ma anche un nuovo modo collettivo di lavorare, è giusto?
Il processo ideativo di un lungometraggio si basa sul fondamentale lavoro di squadra. Un team sinergico al cui interno si possono trovare competenze differenti e interscambiabili. Possiamo trovare un regista, uno scultore, un esperto di fotografia ed esperti informatici. Mi piace pensarla come una bottega rinascimentale digitale in cui saperi diversi collaborano alla creazione di grandi successi cinematografici, che si avvalgono di un nuovo linguaggio della contemporaneità, il linguaggio digitale.

E così la mostra diventa l’occasione per visitare gli studi Pixar e conoscere i suoi processi creativi e produttivi?
Durante il percorso si scopre che il mondo digitale fonda le sue radici in una fase che definirei artigianale: la mostra mette al centro la creatività umana pur in un contesto digitale ed informatico riscoprendo un background artistico manuale. Nella metodologia di lavoro si può parlare di nuovo Umanesimo: c’è un bisogno di mettere l’uomo al centro con i suoi aspetti creativi, di uscire un po’ dalle specializzazioni chiuse in compartimenti per fare un lavoro di Team che sia interdisciplinare e di sintesi. La complessità attuale non si può affrontare con specializzazioni impermeabili tra loro.  L’industria sforna continuamente tecnologia, ma ad una costante crescita tecnologica deve accompagnarsi una crescita creativa e culturale che la possa utilizzare. Così come dalle botteghe rinascimentali attraverso le innovazioni e la passione uscivano fuori creatività e pensieri nuovi, così la tecnologia deve essere utilizzata pensando all’uomo ai suoi bisogni, al suo innato desiderio di sviluppo. Occorre riprendere il controllo e, attraverso una presa di coscienza di sé, mettere l’uomo al centro del dibattito.  (ndr: la tecnologia è solo un mezzo per dar vita all’arte, che si compone invece di fattori decisamente più “umani “ cit. Lasseter).

Nei film Pixar ci sono delle scene che rimarranno nell’immaginario collettivo e assistiamo spesso ad un capovolgimento dei luoghi comuni: in Ratatouille, un topo è lo chef del ristorante, in Nemo gli squali sono buoni, in Monster & co. i mostri sono terrorizzati dai bambini. Rispetto ai film Disney o di animazione giapponese, o alla DreamWorks che specificità ha un film Pixar, qual è la sua qualità narrativa?
Come avviene nel percorso della mostra, il filo conduttore di ogni film può essere suddiviso in tre parti: personaggi, storia e mondi.
I personaggi Pixar hanno una definizione psicologica molto forte. Per creare il carattere di ogni personaggio si mette a frutto il sapere di ogni componente del team di lavoro, dal disegno all’esperienza di vita reale, per far si che l’emozione possa essere trasferita al personaggio. 
Per secondo, la storia: l’attenzione alle scene di vita quotidiana e all’ambiente nel quotidiano. La narrazione di mondi verosimili, di una realtà estrapolata dal contesto.
Le dinamiche narrative si fondano su degli archetipi che riprendono i valori fondanti del mondo di ognuno di noi: l’amicizia, il coraggio, la paura. C’è una forte adesione al mondo reale, ma visto da una nuova prospettiva, attraverso le lenti della fantasia e della creatività. E così i giocattoli in Toy Story prendono vita quando non visti.
Il mondo subacqueo di Nemo è stato realizzato attraverso una esperienza reale del Team: i disegnatori di Nemo hanno fatto un corso di sub per capire com’era la vita sott’acqua, per comprendere l’ambiente marino e conoscere un nuovo mondo attraverso una vera esperienza di vita al fine di avere un quadro narrativo completo.
Un terzo aspetto sono i mondi costruiti in 3D e il color script: lo studio di una vera e propria sceneggiatura visiva cromatica attraverso la quale ottenere una particolare atmosfera emozionale tale che si ha la sensazione di essere li in quel mondo, anche grazie all’apporto sonoro fondamentale per la messa in scena.
Il salto quindi della Pixar (con Lasseter che comunque veniva dalla Disney) è stato unire la tensione narrativa con l’attenzione alla fantasia per condurci in un mondo che fosse più vicino a noi. Inoltre la Pixar ha liberato questo genere dall’etichetta “Film d’animazione” per farlo diventare solo Film, vero e proprio, che è raccontato con un proprio linguaggio narrativo diverso certamente dalla cinepresa, ma che consente di esplorare altri mondi e modalità per raccontare una storia.
Si stratta di una nuova estetica virtuale, attraverso la quale Pixar ha dimostrato che era possibile raccontare delle storie meravigliose. Ha compiuto un salto rispetto alla Disney che, pur cercando di realizzarla, non aveva tale tecnologia, dato che l’iper realismo è possibile solo con immagini sintetiche.
Rispetto alla Dreamworks, la Pixar ha compiuto un ulteriore salto perché si è specializzata esclusivamente nella realizzazione di Film ( ci vogliono anche 5 anni per realizzare un film Pixar!...ndr), facendo si che il concetto di immagine 3D non fosse più legato a quello di effetto speciale.

Oltre il cinema, la televisione, la pubblicità, il web, quanto sono estesi oggi i campi di interesse del digitale?
Fino a 10 anni fa si parlava del digitale come se i suoi ambiti di competenza fossero chiusi in compartimenti stagni. Quindi c’era il cinema, la televisione, la grafica digitale, l’arte che si avvaleva di installazioni interattive e realtà virtuale. Oggi il digitale conquista il territorio, diventa una condizione culturale. La tecnologia digitale è trasversale ad ogni settore dal turismo, alla moda, alla nostra vita privata. E’ un processo che ha cambiato le professioni in ogni settore. L’individuo passa da analogico a digitale e questo cambiamento è irreversibile. E’ iniziato tutto negli anni ’80 con il cinema e il videogioco, con l’industria dell’entertainment più in generale, una industria che è diventata enorme, ma il cambiamento ora è attorno a noi ed è diventato quindi una condizione umana culturale.

Cultura digitale in Italia, a che punto siamo? Di cosa ha bisogno?
L’Italia non è fuori da questo processo, ma non si può neanche dire che abbia puntato sull’industria Hardware come in U.S.A.. Solo dal 2011 si è provveduto a iniziare il processo di digitalizzazione . Nella nostra storia degli anni 60-80 abbiamo un background più sulla produzione di contenuti che sullo sviluppo di Hardware e Software, ma è proprio in Italia che è stato sviluppato il protocollo MPEG (Moving Picture Experts Group), una squadra di ricercatori di Torino ha lavorato ad un codice standard per trasformare le informazioni in dati complessi. In Italia c’è un effettivo ritardo delle politiche di investimento nella Digital Economy. Lasciando da parte le grandi imprese che son riuscite a stare al passo con i tempi grazie ai loro investimenti, per quanto riguarda invece il tessuto produttivo delle piccole realtà, c’è un gap enorme. Le piccole imprese devono ancora metabolizzare il cambiamento e proiettarsi verso un mercato più digitale che provveda a rinnovare il loro lavoro.
Le start up si sono sviluppate dal 2011 con un grande sforzo hanno liberato idee e possibilità, ma nella realtà di mercato o si fermano o vanno via dall’Italia, perché non c’è ancora possibilità di crescita. La Pubblica Amministrazione, nonostante parole e propositi, necessita di una maggiore digitalizzazione, ma dall’altra anche il cittadino risulta poco abituato alle innovazioni che il digitale comporta. Quindi se la tecnologia non manca, i software e hardware ci sono, le idee anche, manca una crescita culturale digitale sufficiente a rendere reattivi gli utenti di fronte allo scenario nuovo che si prospetta. C’è un enorme lavoro da fare. La Digital Divide è culturale. Le soluzioni che potrebbero aiutare il processo sono da ricercare a livello scolastico; a livello di impresa; nell’investimento in Start up. Il Progetto di Meet è proprio creare un centro permanente per la cultura digitale per accelerare e recuperare tale ritardo.
(ndr: nel 2019 Meet troverà casa nell’ex Spazio Oberdan di Milano, acquistato da Fondazione Cariplo allo scopo di promuovere incontri, mostre, workshop e approfondimenti con una prospettiva umanistica su innovazione e digital transformation).

Che percorso consiglia ad un giovane creativo?
Occorre che si guardi attorno, che si misuri con realtà più evolute. Sicuramente occorre un confronto internazionale, ma può anche studiare qui in Italia. Le università italiane sono aperte ma non ancora inserite nel flusso internazionale.

La cosa più difficile da disegnare in digitale? 
Rappresentare la figura umana, l’espressione del volto, la trasmissione dei sentimenti. C’è ancora molto da fare, perché dietro ad uno sguardo non c’è ancora l’anima!
Spesso l’artista si lamenta che il frutto della propria creazione non sia mai abbastanza perfetto. Michelangelo chiedeva al suo Mosè: perché non parli? Chissà se nel prossimo Toy Story 4 in uscita nel 2019, questo limite sarà superato…peccato che comunque vada, Woody non potrà avere la voce del grande Fabrizio Frizzi!

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