La curva epidemica in Italia ha segnato un aumento per il
quinto giorno consecutivo e questo è oggettivamente un problema perché, visti
gli enormi progressi registrati nella lotta al Covid-19, di tutto il Paese
aveva bisogno meno che vedere ripresentarsi lo spettro della pandemia e pensare
nuovamente a misure drastiche per contrastare il contagio.
A leggere, con spirito statistico, la situazione, le
sensazioni non sono certo rassicuranti perché ci sono stati 223 nuovi casi, di
cui ben 115 in Lombardia, e questo la dice lunga su come l'azione di contrasto
al Coronavirus in questa regione sia diventato, più che un problema medico, un
terreno di scontro politico perché è ben difficile potere trovare una
giustificazione al fatto che il duo Fontana-Gallera, nonostante la sbandierata
efficienza della sanità lombarda, non riesce proprio a riportare la situazione
nell'alveo della normalità.
Nonostante il fatto che i numeri nazionali siano
oggettivamente incoraggianti (ieri 15 decessi, 77.096 tamponi, 384 guariti) c'è
un comprensibile timore per l'evolversi negativo di una situazione che si
riteneva sotto controllo, almeno nell'ottica di una normalizzazione dei dati
clinici.
Si comincia, da qualche parte, a rilanciare l'ipotesi di
misure di contenimento del contagio che, al di là del linguaggio politico,
significa la reintroduzione di limitazioni alla circolazione delle persone e
delle attività degli esercizi commerciali. Una posizione condivisibile? In linea di principio sì, perché
se il contagio riprende a correre non si può stare con le mani in mano,
coscienti che questo accade perché c'è chi viola le elementari norme di
prudenza.
Ma qualche dubbio emerge perché sembra non tenersi conto di
quanto fatto sino ad oggi e di come le misure sin qui adottate abbiano ottenuto
risultati eccellenti, se è vero che in 14 regioni non si sono registrati nuovi
decessi, a conferma della bontà delle linea sin qui seguita.
Valle d'Aosta, Liguria, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia
Giulia, Marche, Umbria, Abruzzo, Campania, Molise, Puglia, Basilicata,
Calabria, Sicilia e Sardegna non hanno dovuto, quindi, aggiornare il
tristissimo elenco dei decessi e possono guardare con fiducia al futuro, che
per fortuna per loro è già cominciato.
Ma, ed è questo l'elemento che più deve inquietare, le nuove
15 vittime si sono registrate (oltre nel nella Lombardia, 4 morti, che proprio
non ce la fa a scrollarsi di dosso la maglia nera in questa brutta classifica),
in Piemonte (quattro vittime), Toscana (tre), Emilia Romagna (due), Lazio e
Veneto (uno), ovvero nelle regioni maggiormente colpite dal Covid-19.
Dall'inizio della pandemia il totale dei morti è salito a
34.833. Ora, quindi, cosa fare e, soprattutto, chi deve fare cosa?
L'aumento dei morti e il tornare a salire della curva
epidemica sono elementi che non si possono sottovalutare, ma è altrettanto
evidente che l'Italia di oggi non è quella di un paio di mesi fa, quando
accettò, pressoché in silenzio e con spirito di totale condivisione del
problema, di restare barricata in casa. Oggi le condizioni sono diverse perché
l'introduzione di nuove misure per comprimere il contagio, con stop alla
circolazione delle persone, metterebbe moltissimi esercizi nella condizione di
dovere prendere atto che i sacrifici sono stati inutili e quindi chiudere
definitivamente i battenti.
I numeri sono preoccupanti? Sì.
I numeri giustificano un nuovo giro di vite sulla libertà
delle persone? Forse no.
E su questo tutti devono riflettere. Il governo,
innanzitutto, che si muove tra mille difficoltà, e poi anche le Regioni che,
almeno secondo i dati odierni, sembrano sopravvalutare il pericolo, trovandosi
quindi davanti alla prospettiva di ''chiudere'' tutto, come fatto all'inizio
della pandemia. Che sarebbe la peggiore soluzione possibile, perché
rimanderebbe a picco quelle attività che ora, dopo mesi di indicibili
sofferenze e difficoltà, possono sperare - almeno quello - di uscire dalla
crisi.