Ben venga lo Stato imprenditore, ma no ai manager espressi dalla politica

- di: Diego Minuti
 
L'economia, quella che, se va male, manda in malora un Paese intero, negli ultimi mesi in Italia è attraversata da un vento impetuoso, ancorché storicamente fuori canone, che vede una presenza dello Stato sempre più evidente, forse anche invadente, ma da molti reclamata a gran voce.
È una strada che si sta perseguendo e che apre a considerazioni che giungono da più parti, e che non necessariamente sono tutte disinteressate, sull'opportunità che lo Stato, come in stagioni lontane, torni a fare l'imprenditore e, soprattutto, in settori delicatissimi perché direttamente legati alle esigenze di una società, della collettività.
Stiamo assistendo, insomma, ad un progressivo spogliarsi del ruolo di testimone attento, che lo Stato si era assegnato, per abbracciare quello di garante di alcuni settori ritenuti vitali per il Paese, quali, ma è solo un esempio, quelli dei trasporti e bancario.

L'elenco delle imprese che, di fatto, sono ora di pertinenza dello Stato, nei diversi profili che esso può interpretare, comincia ad essere lungo ancorché molto importante. A cominciare da Autostrade per l'Italia (che, secondo l'accordo, dovrebbe avere nella Cassa Depositi e Prestiti il prossimo azionista di riferimento), per passare ad altre società (Alitalia per tutte, tacendo di quella che sarà il futuro dell'ex Ilva di Taranto) per le quali la sola soluzione per evitarne il tracollo è stata individuata in una presenza massiccia dello Stato.
L'interrogativo, a questo punto, non è se queste operazioni di consolidamento di imprese e società fondamentali per la nostra economia siano giuste o praticabili, ma se stiamo assistendo ad un lento, inequivocabile ritorno dello Stato nella stanza delle leve di comando di imprese o attività economiche.

Quello che nel tempo ci siamo detti (o ci hanno detto) è che il privato, se motivato dall'esigenza di produrre reddito, lavorerà per il suo bene, ma anche di quello del Paese facendo circolare molta più moneta (in termini di stipendi, commesse, indotto) di quando a comandare erano i boiardi di nomina politica.
Un pensiero sostanzialmente fondato sul fatto che gli imprenditori privati - grazie anche ad una selezione naturale, dove il più bravo elimina il più debole - sembrano maggiormente vocati a determinare ricchezza anche perché sono sganciati da una visione politica del ruolo.

Ma poi arriva la crisi (un fatto che, ormai ciclico, è entrato purtroppo nel lessico della storia recente) che mette tutti d'accordo sul fatto che in qualche cosa abbiamo sbagliato e che, quindi, dobbiamo metterci nelle mani di qualcuno che ci garantisca quello che è alla base di ciascuna attività economica: la continuità.
E chi meglio dello Stato ti può dare assicurazioni in questo senso?

Il terremoto che il Covid-19 ha provocato, nella vita di migliaia di persone, da esseri umani ed anche come parte di un sistema economico, si sta manifestando con una ampiezza e profondità che nemmeno ipotizzavamo nei nostri peggiori incubi. Ed invece eccoci qui, a contare quante imprese ogni giorno chiudono i battenti, con la segreta speranza di riaprire. Ma con una certezza: lo Stato, implacabile, chiede loro di pagare tasse per introiti mai arrivati, innescando così un processo di lenta distruzione. Perché, dice lo Stato, tu le tasse le devi pagare se no non potrò garantire i servizi; perché, dicono le imprese, se pago oggi per quello che non guadagnerò sarà la fine perché mesi di crisi hanno eroso i risparmi.

Ecco che quindi oggi lo Stato non esattore, ma garante della collettività, deve abbandonare il ruolo che, nell'epoca delle privatizzazioni, prevedeva di uscire da tutto e limitarsi a dare blande linee guida. Anche perché il regime da Coronavirus ribalta vecchi concetti e modelli economici apparentemente solidi, dando la stura a tesi che mirano soprattutto a catturare consensi.
Per questo è da sposare la tesi espressa da Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, laddove ha affermato che ''il virus ha rafforzato ovunque il sistema degli Stati, ovvero del 'capitalismo politico - basta pensare ai prestiti garantiti dalla Sace ai grandi privati - e se questa tendenza finisce, come da noi, in dote ai governi che diffidano dell'impresa, amano esibire i capri espiatori e praticare il populismo delle tariffe, il cerchio si chiude''.

Il vento delle privatizzazioni, che in Europa ha avuto la sua grande sacerdotessa in Margaret Thatcher, aveva un senso se la macchina economica marciava a pieno regime o le pecche di gestione da parte dello Stato erano troppo evidenti per fare finta di non vederle.
Oggi non ci troviamo in questa condizione ed uno Stato che si faccia carico di guidare settori-chiave dell'economia non è certo una bestemmia. D'altra parte, quando lo Stato ha fatto l'imprenditore - quando cioè non s'è fatto travolgere dalle istanze di conventicole politiche - non determinato danni, anzi in alcuni casi ha fatto da modello per una gestione in cui l'esigenza di raggiungere obiettivi di bilancio non era inquinata dalle ingerenze del Palazzo.

Sintetizzando al massimo: uno Stato che torni a fare l'imprenditore non può prescindere dalla scelta dei manager manager che sia guidata dallo spessore professionale e non dall'appartenenza a questo o quel partito o movimento.
Quando si parla di aziende che fatturano nell'ordine di svariati miliardi di euro, le si deve mettere in mani capaci. Non siamo così sprovveduti da pensare che quelle ''mani capaci'' non siano sensibili a talune correnti della politica, ma che non sia niente di più di una simpatica attenzione.

Per farla breve, quando si tratterà di scegliere gli uomini del management di questa o quell'azienda diventate nei fatti pubbliche, evitiamo di fare ricorso, come serbatoio di cervelli ed eccellenze, a quel liceo di Pomigliano d'Arco da cui sono stati fatti uscire, negli ultimi anni (ad occhio e croce, dal 2018), fior di manager, con superstipendi, per importanti partecipate.
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