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Lavorare finché morte non ci separi: boom degli over 50

- di: Bruno Coletta
 
Lavorare finché morte non ci separi: boom degli over 50
In un anno +603mila ultra cinquantenni occupati. Il mercato del lavoro cresce, ma invecchia. Giovani sempre più ai margini e pensione sempre più lontana.

Il lavoro in Italia? Sempre più un affare da cinquantenni

Il lavoro in Italia cresce, ma invecchia. È questo il quadro che emerge dagli ultimi dati Istat sul mercato occupazionale: in un anno, gli occupati over 50 sono aumentati di ben 603mila unità, arrivando a rappresentare il 42,26% degli occupati totali, con un totale di 10 milioni e 280mila lavoratori attivi in questa fascia d’età. Mai così tanti. Vent’anni fa erano poco meno di 5 milioni, appena il 22% del totale. In pratica, oggi un lavoratore su due ha più di cinquant’anni.

I dati ufficiali parlano di una crescita dell’occupazione: +16mila unità a giugno rispetto al mese precedente e +363mila su base annua, con un tasso di occupazione stabile al 62,9% e disoccupazione in calo al 6,3%. Numeri che il governo ha accolto con entusiasmo. “Siamo orgogliosi dei risultati che la nostra Nazione sta ottenendo”, ha scritto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni su X, aggiungendo che si tratta della conferma “della costante crescita dell’occupazione”.

Ma sotto la superficie positiva, si cela un cambiamento profondo – e per molti versi inquietante – della composizione del mondo del lavoro. L’Italia sta diventando un Paese in cui si lavora di più, più a lungo, e sempre più tardi.

L’età media del lavoro sale, i giovani restano al palo

Se gli over 50 avanzano, qualcuno necessariamente retrocede. E sono i giovani. Tra i 15 e i 34 anni, gli occupati sono diminuiti di 60mila unità in un anno. Il tasso di occupazione è calato di 0,8 punti nella fascia 15-24 anni e di 0,3 punti tra i 25-34enni. Certo, il tasso di disoccupazione giovanile è sceso al 20,1%, ma il calo è in buona parte dovuto alla riduzione del numero di giovani attivi: molti non cercano più lavoro, o lo fanno in modo intermittente, spesso scoraggiati.

Il rischio è evidente: un mercato del lavoro dove il ricambio generazionale è bloccato, dove l’esperienza è preferita alla formazione, e dove chi entra lo fa sempre più tardi e spesso senza garanzie.

La pensione non arriva (e allora si resta al lavoro)

L’altra grande leva che ha gonfiato le fila dei lavoratori over 50 è la stretta sulle pensioni anticipate. I criteri per uscire dal lavoro si sono fatti più rigidi, e l’aspettativa di vita più lunga ha reso normale l’idea di restare in attività anche dopo i 65 anni. Chi può permetterselo, lavora. Chi non può, è costretto a farlo. E il sistema produttivo si adatta: meglio tenersi stretti i cinquantenni e sessantenni già formati, piuttosto che rischiare con i trentenni ancora da inserire.

Così, la “crescita dell’occupazione” sembra più un sintomo di un sistema che non lascia andare nessuno, piuttosto che un segnale di nuova vitalità.

Contratti più stabili, ma senza passaggio di testimone

Un altro aspetto interessante riguarda la tipologia di occupazione. A giugno 2025, gli occupati a tempo indeterminato sono aumentati di 472mila unità rispetto a un anno prima, mentre i contratti a termine sono calati di 299mila. Anche gli autonomi sono cresciuti di 190mila unità.

Siamo di fronte a una maggiore “qualità” del lavoro, si potrebbe dire. Ma questa stabilità non riguarda i giovani: gran parte dell’aumento interessa chi è già nel sistema da tempo, con un bagaglio di esperienza che rende meno rischioso l’inquadramento stabile. In sostanza, i contratti migliorano, ma non per chi entra. Il mercato si consolida in alto e si impoverisce in basso.

Donne in recupero, ma ancora distanti

Sul fronte del genere, il mese di giugno ha visto +27mila occupate in più contro -11mila occupati uomini, una variazione che riflette anche la stagionalità dei settori a prevalenza femminile, come turismo e servizi. Tuttavia, su base annua, la crescita è equilibrata: +181mila donne, +182mila uomini. Va però sottolineato che le donne partivano da uno stock inferiore, e dunque il tasso di crescita femminile è leggermente più alto (+1,8% contro +1,3%).

Il divario di genere, insomma, non è chiuso. Ma almeno si intravedono segnali di recupero, che andranno consolidati con politiche di conciliazione, servizi e incentivi.

Il lavoro c’è, ma il futuro?

Tutti i dati, presi singolarmente, sembrano positivi: occupazione in crescita, disoccupazione in calo, contratti più stabili. Ma il quadro complessivo racconta altro: un mercato rigido, sempre più vecchio, sempre più chiuso, dove l’ascensore sociale non sale più.

Ci si chiede: è davvero questo il modello vincente? Un’economia che si regge su chi ha più di 50 anni, che spinge i giovani verso l’emigrazione o l’inattività, che ritarda l’ingresso nel mondo del lavoro fino a 30 anni e poi impedisce l’uscita anche dopo i 65?

Non è solo una questione statistica. È una questione di visione.

L’Italia non è un Paese per giovani (ma potrebbe diventarlo)

Nel 2025, parlare di lavoro in Italia significa fare i conti con un’asimmetria generazionale. Non mancano le competenze, mancano le occasioni per metterle a frutto. La formazione è troppo scollegata dalla domanda, le imprese troppo restie a investire su chi non ha esperienza, le politiche pubbliche troppo sbilanciate sul breve termine.

Servirebbe un cambio di rotta netto: meno incentivi al posticipo della pensione e più incentivi all’assunzione giovanile, formazione continua reale, e strumenti per accompagnare l’ingresso nel mercato.

Perché sì, si può essere orgogliosi della crescita dell’occupazione. Ma se quella crescita avviene bloccando le porte d’ingresso, non è progresso. È sopravvivenza. E il futuro, in un sistema così, resta fuori.

Serve una nuova agenda per il lavoro

L’Italia del lavoro 2025 è forte ma fragile, numericamente in crescita ma socialmente sbilanciata. La sfida ora è chiara: ridare spazio ai giovani senza penalizzare i lavoratori senior. Favorire un sistema dove l’esperienza non schiacci il ricambio, e dove l’innovazione non resti imprigionata nell’attesa di un pensionamento che non arriva mai.

In gioco non c’è solo l’equilibrio occupazionale, ma la sostenibilità del nostro modello sociale, produttivo e culturale. E finché a crescere saranno solo gli over 50, sarà difficile parlare davvero di futuro.

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