Intervista al maestro Ferdinando Lauretani, scultore che racconta l'anima incantata di Rasiglia

- di: Barbara Bizzarri
 
Incastonato fra le verdi colline dell’Umbria, a pochi chilometri da Foligno, esiste un borgo considerato fra i più belli d’Italia: Rasiglia, la Venezia del centro Italia, un gioiello incantevole racchiuso in una cornice naturale di raro splendore. Qui, racconti di antichi tempi si rincorrono in leggende dal sapore contadino, che narrano mestieri scomparsi e dicerie tramandate attraverso le generazioni. Come in tutti i paesi rurali e nei mondi incantati delle fiabe ci sono mulini e telai e la vita scaturita dall’acqua, e fin dal XII secolo questo è stato un paese di mugnai e tessitori. Quattro erano i mulini rimasti attivi fino al secondo dopoguerra e, a seconda del rumore prodotto dalle macine, la popolazione aveva elaborato una intera frase con cui riconosceva a quale famiglia appartenesse. Così, “lu saccu pe’ coscienza” al molino Angeli, “chi sci, chi no” al molino Silvestri, al molino Ottaviani “tutti uguali, tutti uguali”. In ogni borgo che si rispetti, è necessaria una guida per conoscerne i segreti. Rasiglia ha dato i natali al Maestro Ferdinando Lauretani, regista RAI, docente di regia e eminente scultore, nostro Virgilio nella meraviglia del piccolo paradiso svelato attraverso i suoi occhi: “La cosa più importante di Rasiglia è sicuramente l’acqua. Abbiamo tre grandi sorgenti, una è in mezzo al paese e le altre due poco distanti. Quella centrale veniva utilizzata nel XX secolo per due lanifici che lavoravano intensamente, poi, con la Seconda Guerra Mondiale è tutto finito. Per la popolazione è stata una tragedia. Noi rasigliani sappiamo che di sorgenti ce ne sono altre tre o quattro, di piccola portata, è un posto in cui l’acqua esce dappertutto”. 

Intervista al maestro Ferdinando Lauretani

Ha prestato la sua voce a un documentario sul castello di Rasiglia. Qual è la sua storia?

Ci sono pochissimi resti di un castello del Seicento, di proprietà dei Signori Trinici di Foligno. Questo castello era il più grande dei loro palazzi, al limitare del confine con il ducato di Spoleto. Ne rimane ben poco, una torre e circa ottanta metri di muro, ma noi sappiamo che era formato da sette torri. Chi conosce la storia del paese sa che, staccato dal castello e sopra la sorgente che è in mezzo a Rasiglia, ci sono i resti di un grande palazzo, che i nostri avi chiamavano la Castellina. Era la dependance del castello, e quando venivano i signori, vi si spostavano perché lì vicino c’era acqua pura, e per la magnificenza del posto. Dalla Castellina partiva un cunicolo dove, quando eravamo ragazzini, entravamo a giocare, perché si poteva ancora percorrere per una quindicina di metri e portava direttamente al centro del maniero. Quindi, in caso di arrivo di armate, non dovevano neanche uscire dal palazzo. 

Cosa ne è stato dei lanifici?

Sono stati smantellati: resta solo un telaio jacquard dei primi del ‘900 che serviva a fare le coperte e ha lavorato fino agli anni Settanta. Infatti, la mia mamma, che era appassionata di queste cose, mi ha lasciato in eredità sette coperte fatte con questo telaio. Sono molto belle, e ogni tanto me ne chiedono qualcuna da vendere, ma ovviamente non ci penso neanche. 

Quali sono le altre caratteristiche più peculiari di Rasiglia?

Un’altra connotazione di Rasiglia è l’arte: c’è un Santuario dedicato alla Madonna delle Grazie, con tutte le pareti affrescate. Io ho lavorato varie volte con Federico Zeri ed ero riuscito a convincerlo a venire a vedere questo Santuario. Lui ne era appassionato e lo considerava addirittura come l’aula di una scuola del Quattrocento: era il posto dove i Maestri umbri di allora mandavano i loro allievi, muniti di cartoni forati, ad esercitarsi nell’affresco. Quindi, facendo attenzione, si possono contare una ventina di raffigurazioni della Santa Vergine e, sempre su consiglio di Zeri, fu fatto un saggio vicino alla porta principale all’ingresso. Fu scoperto un altro strato di affresco, perché gli allievi si esercitavano: coprivano con uno strato di intonaco e poi affrescavano di nuovo. Si tratta di affreschi di scuola, però, presi nella loro dimensione è stupendo pensare che nel ‘400, in questa chiesetta, vi fossero gli apprendisti a esercitarsi. Inoltre, c’è un’altra chiesa privata, con affreschi del Seicento, restaurati e molto belli da vedere. In questo paese poi, per oltre cinquanta anni, dai primi del Novecento fino al 1964, anno della sua morte, c’è stato un prete che non solo esercitava il sacerdozio, ma era anche un valentissimo scultore, Don Pietro Corradi, a cui debbo la mia passione per la scultura. Nella chiesa parrocchiale c’è una Madonna in marmo di Carrara scolpita da lui, splendida, bellissima, con uno sguardo intenso e un atteggiamento verso il bambino che tiene in braccio davvero commovente. 

Come è nata la sua passione per la scultura?

Pietro Corradi generalmente lavorava nella sagrestia e io, quando lo sentivo lavorare, andavo subito a curiosare. Avevo quattro, forse cinque anni. Poi sono diventato il suo assistente: qualcosa del genere “passami quello, dammi quell’altro”, e infine sono diventato suo allievo. L’ho seguito fino alla sua morte e la sua ultima opera è dedicata a Santa Angela da Foligno, si trova nel porticato del Vescovado. Io conosco esattamente la particolarità di questa statua: la croce su cui poggia le mani è come se fosse sospesa, perché era considerata uno dei Dottori della Chiesa, una grande studiosa di testi sacri. La sospensione della croce è il simbolo di come la sua forza cognitiva e psicologica riuscisse a sostenerla. Nella sua piccola base c’è la firma autentica inserita in uno dei blocchetti di ottone, e dentro c’è anche una foto di noi, vicino al modellato in pietra della statua. Qualche anno fa, un prete di Foligno, don Cesarini, ha voluto fare un libro di riesame delle opere di Don Pietro Corradi e ha voluto citarmi come allievo. La mia passione è nata da bambino, dopo ho fatto tutt’altro: ho lavorato tanti anni in Rai e ho avuto la cattedra di regia televisiva alla Scuola di Cinema di Milano ma, già quando insegnavo, ricominciai a scolpire con la serie dedicata al cinema italiano. La prima statua che ho fatto era dedicata a Pier Paolo Pasolini, rappresentato sull’arenile di Ostia in un ultimo sforzo per rialzarsi, ma senza bocca, ridotto al silenzio. Ho conosciuto quasi tutti i personaggi che ho affrontato, e questa collezione è già stata esposta in parecchie mostre. All’apertura della mostra a Parma venne Carlo Lizzani, quando fummo nell’ultima sala gli chiesi di svelare una statua ancora coperta da un drappo. Quando lo tirò via e vide che era dedicata a lui, si mise a piangere e mi abbracciò. A Milano venne Ermanno Olmi, che già aveva visto quella dedicata a lui. Io ho avuto un grande estimatore, Francesco Poli, docente a Brera e a Parigi, e che ha scritto parecchi libri sulla scultura: mi ha sempre definito un oscurativo concettuale perché tutte le opere che ho fatto bisogna guardarle attentamente, leggerle, vederle.

Come ha lavorato alla serie di statue dedicate al cinema italiano?

Per ogni maestro che ho affrontato, ho letto tutto quello che potevo leggere. Ho creato una biblioteca di almeno mille volumi, e visto più volte tutti i loro film: l’ho fatto per fare le mie statue. Dovevo avere l’input trovando una loro frase significativa e se non la trovavo non cominciavo neanche a disegnare. Poli, che ha visto i quaderni di disegno, voleva pubblicarli. Conoscevo personalmente la maggior parte di coloro a cui ho dedicato una statua. Per lavoro o per curiosità sono sempre stato un grande curioso, e ho avuto un lato affettivo con tutti, per esempio con Fellini: ho lavorato tre anni con il fratello. Dovrei ripercorrere tutta una vita di incontri, storie, conoscenze: ho vissuto intensamente a Roma per trent’anni.

A suo parere, qual è la caratteristica fondamentale di un regista?

Il ruolo del regista tv è quello di creare un team, deve sapere il nome e il ruolo dal primo all’ultimo collaboratore, perché non posso chiedere a un cameraman di spostare un cavo. L’affiatamento si crea trattandosi così, poi ognuno ha il suo posto. Al Teatro delle Vittorie avevo a che fare con ottanta persone e li conoscevo uno per uno: non ho mai chiesto una cosa sbagliata. Appena delle persone sapevano che dovevo andare in esterna o fare dei lavori, mi chiamavano chiedendo, mi fai venire con te? Questo vuol dire sapere creare un team. Quando hai il tuo team, il lavoro viene meglio ed è quello che sono venuto a insegnare a Milano.

Lei ha lavorato a un pannello rappresentativo della storia di Rasiglia: come si è sviluppata questa opera?

Lavoro con un personaggio favoloso, Lucio Caruzzi, scultore di fama. La sbozzatura l’ha fatta lui. Quando ho portato il modellato nel suo laboratorio, che è uno dei più grandi di Carrara, se lo è guardato e ci è stato addosso un quarto d’ora. Avevo un po’ di patema, ma quando si è rialzato mi ha guardato con quel suo sorriso toscano e ha detto, “complimenti. Mi piace, la storia del suo paese viene fuori stupendamente”.

Di cosa si occupa attualmente?

Adesso mi dedico principalmente a due cose: alla scultura, e alle rose.  È stata un po’ una scommessa con mia madre che mi diceva, quando non ci saremo più, tu qui non ci metterai più piede. Io non vivo a Rasiglia, vivo nel mondo. A me piace il caldo e vado a svernare sempre da qualche altra parte, anni fa ho preso il camper e sono andato quaranta giorni in Spagna. La conosco palmo a palmo e quando avevo voglia andavo a fare il weekend a Madrid, magari per una serata di flamenco che a me piace da matti, e poi la domenica sera prendevo l’aereo e tornavo a Roma. L’ho sempre fatto, ecco perché mia madre diceva che non sarei più tornato. Invece, nel 2011, quando si ammalò, mi misi a fare il roseto. Ora è abbastanza grande, e lei non c’è più, ma il cimitero è vicino al castello e sicuramente, da quella donna simpatica e attiva che era, sono convinto che ogni tanto si affacci a guardare le rose. E io torno qui, per curarle, e per sentire il loro profumo. Spesso nel mio roseto mi rivolgo a Domine Iddio, perché non mi ha condannato male se posso stare là a togliere i boccioli sfioriti, e lo ringrazio.

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