La rivoluzione nella comunicazione: che cosa serve nella nuova 'cassetta degli attrezzi' dei comunicatori

- di: Germana Loizzi
 
Dott. Vichi, lei è arrivato nel Gruppo Ubi Banca come Responsabile Media dopo importanti esperienze come manager della comunicazione, giornalista ed esperto di digital media, tra cui 13 anni passati in Unicredit, dove è stato Head of Media Relations and Executive Communications. Ha quindi visto e direttamente vissuto, da punti di osservazione privilegiati, i profondi cambiamenti avvenuti nel mondo della comunicazione, soprattutto negli ultimi 10 anni, sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. Quali sono stati in questi 10 anni i cambiamenti più profondi nei parametri della comunicazione? E quali caratteristiche vengono richieste agli operatori di comunicazione che 10 anni fa non venivano chieste? In questo contesto, si tratta di coordinare e miscelare professionalità specifiche molto diverse, oppure tutti sono in qualche modo intercambiabili?
“Negli ultimi 10 anni è cambiato tutto: se prendiamo come riferimento solo il nostro mondo e quello dei mezzi tradizionali di informazione, nell’ultimo decennio la famosa “piramide” si è rovesciata. Quella gerarchia, nella quale erano fondamentali le agenzie di stampa e i quotidiani cartacei, oggi ha lasciato spazio alle agorà dei social media. Ai mezzi tradizionali, quindi, si preferisce un’opinione più diffusa, partecipata ed articolata, ma al tempo stesso ricca anche di minacce e il pericolo di fake news. È fisiologico che questo cambiamento abbia avuto un impatto significativo anche sulle competenze manageriali, oltre che sulle tecniche dei comunicatori. I manager, oggi, devono avere una grande flessibilità a livello organizzativo e soprattutto devono assumere competenze che siano in grado di gestire tutta la complessa articolazione di strumenti e fenomeni che 10 anni fa non erano presenti. Noi comunicatori, invece, siamo diventati dei Data Analyst: non possiamo permetterci di non studiare i fenomeni, i dati, le statistiche e la concatenazione dei fatti che passano sulla nostra area di influenza, in quanto la lettura continua di questi fenomeni ci consente di essere dei professionisti in grado di conoscere sempre di più l’ambiente esterno. La vera grande capacità dei comunicatori di oggi è lavorare nell’emergenza”. 

L’importanza della comunicazione è molto aumentata rispetto al passato perché il mercato è più concorrenziale e gli standard che chiedono i cittadini alle imprese che forniscono beni e/o servizi è certamente più elevato ed esigente. Un aspetto cruciale riguarda le strategie comunicative per gestire una crisi e salvare la reputazione. Ci sono aziende che sono andate a terra a causa delle crisi più disparate (prodotti difettosi, perdita della ‘reputation’ per l’infedeltà dei manager e così via, in una casistica infinita), altre che invece sono riuscite a salvare la reputazione. Come si muovono davanti a eventi del genere professionisti come lei quando sono chiamati a salvare la ‘reputation’ di un’azienda dopo un evento critico?
“Personalmente, ogni volta che mi reco in un’azienda, cerco sempre come prima cosa di capire le aree di debolezza di quella stessa azienda, ancor prima dei punti di forza. La seconda cosa, quasi contestuale alla prima, è capire cosa succede in caso di crisi, e in che modo e in quanto tempo quell’azienda è in grado di reagire. Questo perché, in un ambiente articolato e complesso come quello che ho descritto prima, ci troviamo a lavorare con dei mezzi velocissimi e, di conseguenza, la nostra capacità di reazione deve essere altrettanto veloce. Per far fronte a questa velocità e affrontare le varie emergeze , all’interno di un’azienda, deve esserci una camera di regia, una war room ben definita e composta da poche persone: l’amministratore delegato, il comunicatore e le persone interessate a quel tipo di crisi. Le decisioni vanno prese in pochissimi minuti e la gestione della crisi deve essere rapida ed avvenire tramite modalità molto precise e delineate.
La ‘reputation’ non è altro che una coralità di elementi, non solo di comunicazione: alla base di questi elementi c’è il comportamento dell’azienda. Oggi un comunicatore può contribuire tantissimo a sistematizzare e a rendere chiaro e continuativo il comportamento di un’azienda, analizzando soprattutto i punti di debolezza. Si può avere una grande reputazione, ma basta un solo evento negativo per far decadere tutto. Siamo in qualche modo degli “operai” che si collocano dietro al controllo di una serie di comportamenti. Una volta, un reclamo nei confronti di un’azienda veniva nascosto e rimaneva all’interno di una stanza; oggi quello stesso reclamo va a finire su tutti i social media. L’architettura dei radar deve essere molto più ampia e qualificata. E deve valutare con numeri e dati lo stato effettivo della situazione che si sta monitorando. Non possiamo permetterci di essere imprecisi. . Il manager della comunicazione deve avere altresì flessibilità e senso dell’organizzazione e, allo stesso tempo, l’intero team deve mantenere l’attenzione molto alta e soprattutto una strumentazione molto qualificata per individuare tutti gli elementi negativi che possono influenzare la reputazione dell’azienda stessa.”.

L’Italia, secondo un’indagine del’Ipsos Mori Social Research Institute, è tra i Paesi sviluppati il primo per ‘Misperception Index’, che analizza e confronta il divario accumulato in 37 Paesi fra la percezione della realtà e la realtà stessa. Al secondo posto ci sono Stati Uniti, al terzo la Francia. Un terreno scivoloso da dovunque lo si guardi, perché è fertile per il proliferare delle ‘fake news’ e allo stesso tempo è fertilizzato dalle ‘fake news’. Vista la brutta posizione italiana, riportare la percezione alla realtà vera sembrerebbe la fatica di Sisifo. Quali sono le ‘armi’ con cui combattere questa battaglia di buona informazione e buona percezione in contesto dove la digitalizzazione rende tutto più veloce, meno controllabile e più pervasivo?
“Al di là di quella che è la nostra posizione rispetto ad altri Paesi, purtroppo le fake news giocano ovunque sull’aspetto emotivo e colpiscono l’elemento della percezione. A volte, quando sono divulgate veramente bene, ma parliamo di casi di spionaggio ad altissimo livello, il meccanismo è molto più complesso da sdoganare. Nei piani più bassi, la fake news non è altro che un comportamento anomalo, illegale e grave di chi si diverte o ha l’obiettivo di fornire informazioni false. Non dimentichiamo che chi fornisce notizie false sta compiendo un atto illecito. La cosa più importante da fare in questi casi, cominciando dalle scuole, è insegnare come si legge una notizia e quali sono gli strumenti da utilizzare.
Faccio un esempio concreto: se una persona legge che è morto un noto attore, la prima cosa da fare sarebbe verificare immediatamente la veridicità della notizia tramite gli strumenti seri ed affidabili che abbiamo a disposizione. Se questa persona non riscontra alcuna conferma in merito, è evidente che si è in presenza di una notizia falsa. Chi crea fake news, a mio avviso, è equiparabile ad un delinquente in quanto commette un’azione lesiva, illegale e grave nei confronti della comunità. Quella notizia potrebbe avere un impatto molto negativo sulla comunità, sulle persone, ma anche sull’economia e sulla politica a seconda dell’indirizzo che si è voluto dare alla notizia. La fake news si può combattere e controllare attraverso i tantissimi mezzi di informazione seri ed istituzionali che abbiamo a disposizione e, per farlo, dobbiamo educare ed insegnare alla comunità, a cominciare dai nostri figli, come leggere una notizia riguardo la realtà che ci circonda”.

A suo parere, nell’interesse della società per cui un professionista dell’informazione lavora, ma anche nell’interesse dei cittadini a una informazione corretta e veritiera, fino a dove si può smussare una notizia negativa e fino a dove si può ‘esaltare’ una positiva in termini di impatto comunicativo?
“Il nostro deve essere un lavoro serio e competente perché soltanto attraverso un lavoro serio possiamo dialogare, ad esempio, con i giornalisti, categoria che, a sua volta, è impegnata costantemente in un lavoro estremamente complesso e articolato. In questa professione la competenza è fondamentale e non si inventa.
Questo rapporto tra comunicatore e giornalista porta ad un dialogo che consente ad ambedue le parti di comprendere meglio il fenomeno da analizzare. Come spesso accade riguardo una notizia, non c’è solo una verità assoluta da raccontare: parlare e confrontarsi aiuta i professionisti ad analizzare meglio l’accaduto e a trovare elementi positivi anche in un quadro apparentemente negativo.
Una prerogativa a mio avviso fondamentale riguarda lo stile con cui si fornisce una notizia: nel nostro lavoro non deve mai verificarsi una mancanza di stile. La notizia che si vuole trasmettere può assumere anche un’accezione positiva secondo il nostro punto di vista, ma non dobbiamo mai dimenticare che il messaggio che va trasferito primariamente deve essere quello di informare le persone che ci stanno leggendo o con le quali stiamo comunicando”.

Può indicare alcuni aggettivi che, a suo modo di vedere, debbono qualificare un buon ‘comunicatore’ di un importante gruppo bancario?
“Il comunicatore deve avere tre caratteristiche principali: essere istrionico, competente e visionario. Se manca uno di questi tasselli rischia di non saper affrontare al meglio le insidie della professione. Un aspetto che ci tengo a sottolineare è che il comunicatore deve avere prima di tutto il curriculum di un vero professionista del campo ed essere molto competente nella sua materia: oggi, purtroppo, capita molto spesso che le aziende non facciano scelte mirate all’insegna della competenza. La caratteristica fondamentale per un comunicatore rimane la visione: deve riuscire a vedere oltre la sfera in cui lavora, altrimenti non è più comunicatore, ma un semplice funzionario. Il comunicatore deve essere l’uomo più esterno all’azienda. Per istrionico, invece, intendo dire che un comunicatore deve assumere la capacità di avere visioni diverse e deve saper cambiare strategia prima che i fatti accadano: avere quindi una capacità di lettura ed essere lungimirante più di chiunque altro.
Una mente istrionica deve essere influenzata da tutto ciò che può essere oggetto di cambiamento: al contrario, una persona rigida mentalmente rischia di non essere un buon comunicatore”.

La società è cambiata e sta cambiando. Un’indagine del Censis, dal titolo ‘Miti dei consumi, consumo dei miti’, afferma che oggi, “per catturare mente, cuore e portafoglio del nuovo consumatore occorre inseguirlo nel suo tour tra i diversi canali di comunicazione”. Siamo ben al di là della targhettizzazione dei segmenti di mercato, molto usata nella comunicazione per far passare notizie e messaggi in modo efficace. E magari con un linguaggio appropriato per ogni target. Come impatta la trasformazione di cui parla il Censis a livello di comunicazione? E in particolare come impatta nella comunicazione degli istituti bancari, che ormai si muovono in un mercato ad alto tasso di concorrenza?
“Per quantoriguarda questo tema, occorre focalizzarsi in realtà sul posizionamento dell’azienda.
Non credo che oggi si possa parlare di mito. I miti hanno storie e vivono di visioni molto diverse e diciamo più aderenti al mondo delle emozioni. Un mito ha una storia ed un excursus legato a fenomeni che coinvolgono direttamente le persone, aspetti che una banca non può rappresentare. I soldi e la gestione dei soldi fanno parte del mondo della sicurezza sociale e della protezione del risparmio. Il mito, a mio avviso , riguarda solamente alcuni brand che, in diversi modi, creano un coinvolgimento più emotivo delle persone. Di conseguenza, penso che oggi dove i mercati sono più instabili e si riscontra molta concorrenza più che di mito occorrebbe parlare di posizionamento, di qualità del brand e di cosa il brand trasmette in termini di coerenza nei comportamenti. Un esempio, da questo punto di vista, può essere una compagnia aerea che trasmette elementi come la sicurezza, il confort, la gentilezza e la tranquillità. Aspetti che toccano direttamente e hanno un impatto immediato sulle persone. Discorso diverso, per fare un ulteriore esempio, può valere per una macchina, in quanto entrano in gioco elementi molto più soggettivi e legati agli stili di vita.
Ci sono, quindi, brand che impattano molto di più sulla sfera emotiva ed altri che, pur coinvolgendo in parte la sfera emotiva, mettono in moto altri meccanismi di comunicazione nel rapporto con la propria clientela”.

Quali sono i punti di maggiore forza del Gruppo Ubi Banca da veicolare a livello comunicativo? E nel farlo quali criteri usa per scegliere la miscela giusta della ‘tastiera’ a disposizione a livello di canali informativi?
“Ubi Banca è una banca solida e ben gestita e questi aspetti sono innegabili in quanto, di fatto, è il terzo gruppo bancario in Italia.
Queste miscele rendono la nostra comunicazione molto rigorosa e anche molto seria: Ubi Banca si pone da sempre in maniera professionale nei confronti del mercato e dei suoi clienti.Abbiamo diversificato da sempre i mezzi di comunicazione con i quali lavoriamo, dalle agenzie di stampa ai quotidiani nazionali, alla TV fino ai media locali: soprattutto questi ultimi assumono per Ubi Banca una grande importanza, in quanto si tratta di un istituto bancario fortemente radicato nel territorio. Lavoriamo contestualmente molto anche sul comparto online e sui social media. Linkedin è un medium molto importante per Ubi Banca che lo ha trasformato in un vero canale di comunicazione e di opinione.”.

Una volta si diceva che per fare il comunicatore occorre ovviamente specializzarsi, ma ancora più importante – anzi fondamentale – è essere una sorta di ‘annusatore’, dotato di una buona cultura di base, con uno sguardo a 360 gradi per cogliere i cambiamenti e, semmai, riuscire ad anticiparli. Insomma, specializzato ma non troppo. Questo è ancora valido, è ancora più valido, oppure è diventato un lavoro per super specializzati? Da questo punto di vista, il suo team in Ubi Banca come è organizzato?
“In questi oltre 30 anni di lavoro nell’ambito della comunicazione ho compreso che il comunicatore deve essere necessariamente un professionista fortemente competente nella comunicazione, che è diventata nel tempo una vera e propria professione. Il comunicatore deve, quindi, essere super specializzato nella sua materia di competenza. Fare il comunicatore nonpuò essere un qualcosa che si improvvisa e non può essere un compito che si affida ad una persona solo perché si è occupata in precedenza di aspetti simili alla comunicazione. Il comunicatore è un professionista che deve saper governare tutti gli strumenti di comunicazione per agire bene. La comunicazione è legata all’azione e l’azione, a sua volta, viene riflessa sul mercato. Tutto ciò che comunichiamo, infatti, ha un impatto sul mercato stesso. Il comunicatore fa una professione business-relevant. Per quanto riguarda il mio team, la fortuna vuole che sia composto da persone molto competenti divise su due aree di interessi: una concentrata sui media e sugli eventi istituzionali e l’altra si occupa delle sponsorizzazioni. È un team di 19 persone, che tenderà ad aumentare, articolato sia nel presidio centrale di Milano sia su tutto il territorio nazionale. Tutte le risorse impegnate in questo ambito hanno grandi competenze non solo finanziarie e bancarie, ma anche esperienze diverse sempre nell’ambito della comunicazione”.

Qual è a suo giudizio l’atteggiamento che i vertici aziendali debbono avere nei confronti del loro staff di comunicazione per poter permettere a quest’ultimo di esprimere al meglio le sue potenzialità? Su questa base, nota divergenze tra l’atteggiamento medio dei vertici aziendali di primarie società italiane e quello esistente in media in altri Paesi sviluppati?
“Avere la comunicazione in azienda significa gestire uno strumento molto sofisticato, in quanto bisogna saperlo utilizzare bene.
Chi utilizza questo comparto deve comprendere che sta usufruendo di un mezzo importante, rilevante per il mercato e per gli stessi stakeholders dell’aziendae, quindi, deve crearsi un climadi assoluta fiducia nei confronti del professionista coinvolto, il quale deve essere a conoscenza di aspetti anche rilevanti dell’azienda e, soprattutto, deve essere una persona esperta di organizzazione perché normalmente il comunicatore stesso deve saper agire all’interno di una struttura molto complessa. Deve poterla cambiare e specializzare in ogni momento perché il mercato cambia e anche il modo con il quale comunichiamo può subire degli aggiustamenti.
Non si tratta di Italia o estero, perché dipende sempre dalla sensibilità dei vertici aziendali e dalla loro effettiva conoscenza dello strumento della comunicazione. Il problema, quindi, non è Italia o altrove: quanto più è sensibile un vertice aziendale alla comunicazione, tanto più la stessa comunicazione può attecchire all’interno dell’azienda e può assumere anche una storia di rilievo a lungo termine.
Negli Stati Uniti, per esempio, anche un ospedale distrettuale qualsiasi ha la presenza di un portavoce; forse gli anglosassoni sono più abituati ad avere una figura come quella del portavoce in quanto è dentro al loro sistema organizzativo in tutti gli aspetti della società, anche per una questione di approccio culturale.
In altri Paesi questa consapevolezza è arrivata più tardi”.

Si parla sempre di comunicazione e, quando si parla di comunicazione, nel 99% dei casi ci si riferisce alla comunicazione esterna. Per quanto riguarda, invece, la comunicazione interna all’azienda qual è il suo approccio e quali sono i suoi strumenti utili?
“Negli anni si è finalmente giunti alla consapevolezza che anche i dipendenti sono degli stakeholder. Noi tutti, come pubblico, in qualsiasi azienda e in qualsiasi ambito siamo attenti e sensibili alla comunicazione. Negli anni ’70 le comunicazioni avvenivano tramite le bacheche, negli anni ’80 tramite le prime newsletter, oggi viaggiamo su mezzi totalmente differenti e quasi tutti digitali. Prima di essere dipendenti di un’azienda siamo delle persone ed anche chi ha il compito di comunicare con i dipendenti deve organizzare la comunicazione in base agli effettivi interessi dei dipendenti stessi.
Noi abbiamo uno strumento molto bello e funzionale all’interno del nostro istituto bancario che risponde a questo tipo di esigenze e, stando ai risultati, ha molto successo. C’è un principio guida in tutto ciò che corrisponde alla strategia dei contenuti: si tratta di un’attività che un buon comunicatore deve saper svolgere anche nei confronti dei dipendenti”.
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