Italexit il colpo di grazia?

- di: Roberto Pertile
 

Malgrado quello che si sta profilando come il “disastro” della Brexit, c’è ancora chi in Italia pensa che sia  conveniente uscire dall’Europa.
La tesi di chi è favorevole all’”Italexit” è che il ritorno alla lira consentirebbe una significativa svalutazione con un incremento delle esportazioni: i nostri prodotti sarebbero più competitivi dal momento che ai consumatori esteri costerebbero di meno per effetto della svalutazione. Con effetto speculare costerebbero invece di più i prodotti importati dall’estero.
Quindi: più esportazioni di beni e servizi, meno prodotti importati, con un bilancio commerciale positivo, a tutto vantaggio dell’economia italiana.
In realtà, questo sarebbe potuto accadere nell’economia di alcuni decenni fa, ma il sistema produttivo si è  nel frattempo radicalmente trasformato. Attualmente, ha acquistato un ruolo di fondamentale importanza la produzione di componenti intermedi dislocati in vari paesi del mondo secondo le nuove convenienze della divisione internazionale del lavoro. La competitività del prodotto finale dipende oggi sempre di più dalla tecnologia incorporata nei beni intermedi. In questo scenario, una “lira” svalutata provocherebbe un aumento ulteriore dei prezzi dei beni intermedi importati, tale da annullare i supposti vantaggi dell’esportazione. I prodotti finali italiani, poi, potrebbero essere volutamente boicottati con un aumento ulteriore dei prezzi dei prodotti intermedi. Questo è già avvenuto, negli anni sessanta, nel settore dell’elettronica italiana.
Inoltre, una lira svalutata avrebbe l’effetto di far crescere il tasso delle obbligazioni del debito pubblico sottoscritto dagli operatori esteri con la conseguenza di incrementare il costo del nostro debito pubblico complessivo. 
Ancora, i detentori dei titoli di Stato italiani avrebbero lo svantaggio di ricevere, alla scadenza dei titoli, denaro con minore potere di acquisto. Inoltre, l’eventuale uscita dall’euro comporterebbe un aumento della disuguaglianza sociale, in quanto la svalutazione della lira provocherebbe una spirale  inflazionistica penalizzando i lavoratori a reddito fisso. Meno svantaggiati invece i lavoratori autonomi, che possono reagire con l’aumento del corrispettivo dell’attività.
L’uscita dall’euro è sostenuta soprattutto da chi è convinto che se l’economia italiana ed europea vanno male, la colpa è dell’euro in quanto moneta unica.
In realtà, sono il progresso tecnico, il miglioramento organizzativo, il peso economico crescente dei settori ad elevata tecnologia, che fanno crescere la produttività: quest’ultima non dipende dalla circolazione di una valuta comune oppure da tante valute nazionali.
La storia dell’industria italiana lo dimostra. L’Olivetti è uscita di scena nel 96/97. Il piano IRI-STET per l’elettronica chiude negli anni novanta, prima dell’adozione dell’euro. Specificatamente, la presenza delle imprese italiane nell’hi-tech, ed in generale nei settori a più alta intensità di tecnologia e di innovazione, è debole indipendentemente dall’euro. Dal 2002 le grandi imprese italiane sono quasi del tutto scomparse.
Non solo, fino alla crisi del 2008, l’unione monetaria è stato un processo positivo: l’errore è stato non accompagnare l’integrazione finanziaria con l’unione bancaria.
Vi è stata una competizione speculativa tra le finanze nazionali che ha visto le banche tedesche e francesi fare investimenti in titoli pubblici di altri paesi europei (in particolare di Grecia, Spagna, Portogallo), con rendimenti superiori a quelli propri nazionali, secondo una mera logica speculativa.
Malgrado questi comportamenti negativi, ci si dimentica invece come l’introduzione dell’euro abbia consentito la riduzione dei tassi di interesse, negli anni successivi alla sua adozione. E se non si è approfittato della riduzione del costo dell’indebitamento pubblico per usare le risorse avanzate nell’effettuare investimenti pubblici nell’innovazione, nella formazione, nei servizi sociali, la colpa non è dell’euro, che è una semplice moneta di scambio.
La verità è che con la crisi del 2008 sono emersi i difetti ed i limiti delle istituzioni europee, che sono state progettate non per la crisi bensì per la crescita. Specificatamente, l’eccesso di debito pubblico è stata una causa importante della crisi dei paesi dell’Unione Europea, dovuta alle politiche di spesa dei singoli paesi. Per salvare le banche imprudenti sono stati emessi titoli di debito pubblico, aumentando così il deficit del singolo paese. C’è stata una partita complessa: il maggior debito pubblico dei paesi del sud Europa è servito anche a salvare le banche del nord Europa, in primis quelle tedesche. Anche in questo caso non è colpa dell’euro, ma di una politica monetaria che permette ad alcune banche di tenere alto lo “spread” per ottenere convenienza ad investire in titoli pubblici ad alto rendimento.
Non è colpa dell’euro se la Germania è riuscita ad imporre ad altre nazioni europee l’austerità, senza offrire da parte sua fattori espansivi.
La verità è che nonostante la valuta comune non c’è un comune debito pubblico ed un comune debito estero, che consentirebbero di controllare la dinamica dell’aumento del costo del debito pubblico dei singoli paesi.
Perchè, dunque, l’U.E. è in crisi? Una chiave di lettura, oltre alle criticità già evidenziate, è il rapporto politico tra gli Stati Uniti d’America e la Germania; in altri termini, il non facile dialogo tra il paese con il più alto debito pubblico al mondo e quello con il più alto surplus commerciale.
La Germania è centrale non solo in Europa, ma anche nei rapporti commerciali e produttivi con gli USA e la Cina. Per cui, per proteggere la propria leadership nazionale, la Germania deve attribuire l’aggettivo “europea” alla sua politica economica, salvando, così, la forma, senza mutarne la sostanza tutta imperniata sulla difesa degli interessi nazionali della Germania. Quest’ultima considera strategica la sua emancipazione dalla supremazia statunitense, mediante la costruzione di un’Europa tedesca garantita da una Germania europea.
La formula “Germania europea in un’Europa tedesca” è il risultato di una crisi, non tanto economica, ma politica. Infatti, una politica debole ha consentito che l’economia andasse a discapito della giustizia sociale. Gli squilibri derivanti sono stati accentuati dalla strategia di potere attuata dalla Germania. Non è stata perseguita una “società europea”.
A questo punto, la responsabilità storica della Germania è altissima. La strategia tedesca per la leadership in Europa rafforzata dall’interesse a controbattere gli USA e la Cina ha cambiato gli equilibri socio politici europei così da rendere insufficienti o precari i posti di lavoro nei paesi europei più deboli.
A questo proposito, provoca rabbia sociale il salvataggio “tout court” delle banche con il dispendio di elevate somme di denaro pubblico, senza dare un futuro di lavoro alle nuove generazioni. “Socialismo di Stato per le banche da un lato, e dall’altro neoliberismo per il ceto medio ed i ceti poveri” . E’ questo il commento di Ulrich Beck in “Europa Tedesca” ed. Laterza. L’effetto è stata l’assurda redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, il contrario cioè di quanto vorrebbe una giustizia sociale. Ed i cittadini europei a ragione sono disorientati; sono senza una bussola politica che li guidi verso un’Europa più giusta ed unita. Invece, l’egoismo nazionale e la miopia dei governi hanno fatto fallire il passaggio ad una vera unione politica: l’euro avrebbe dovuto e potuto essere uno strumento di coordinamento efficace di una logica di solidarietà, più che necessaria in un periodo di crisi come l’attuale. Invece, in un sistema complesso e intrecciato come l’attuale, l’eventuale bancarotta di un paese europeo trascinerebbe gli altri con sè. I paesi del nord Europa si illudono di salvarsi e di stare meglio, nella prospettiva suicida del “fare da soli”.
Una politica interna europea, orientata verso il bene comune “europeo”, sarebbe a lungo termine molto più conveniente.
Attualmente nei politici prevale una preoccupazione elettorale rivolta prioritariamente alla tutela degli interessi nazionali e alla priorità della loro personale sopravvivenza politica.
La crisi attuale dell’U.E. conferma che l’attuale ottica europea della politica non è adatta a risolvere i problemi di oggi e svolgere i suoi compiti istituzionali positivamente .
Si potrà uscire dall’attuale crisi U.E.  solo con una grande politica del cambiamento delle regole europee. La fine dell’unione monetaria provocherebbe una reazione a catena che porterebbe alla fine dell’U.E.. Non basta creare una moneta comune se  non si realizzano contemporaneamente le istituzioni adatte a vigilare ed a coordinare la politica economica e finanziaria dei paesi aderenti all’euro. L’attuale unione bancaria è una grande illusione tecnocratica perchè non funziona senza una responsabilità collettiva che sia espressione del governo europeo. L’unione bancaria, infatti, oggi, non è in grado di conciliare il potere dei parlamenti nazionali in materia di bilancio (e non solo) con una sua azione collettiva.
Il capitalismo odierno si è ormai globalizzato, sottraendosi così al potere politico nazionale.
Ne consegue che ci vuole più Europa e meno Stato nazionale. La prospettiva è quella di un capitalismo europeo che si basi su una cooperazione democratica tra i vari paesi, svuotando di contenuto le logiche degli egoismi nazionali. La nuova Europa non può che essere il risultato di una forte iniziativa politica che pone al centro cooperazione, dialogo e accordi multilaterali.
Finora, l’Europa si è molto occupata di finanza e di banche; molto poco di lavoro, di ambiente, di cultura, di produzione di conoscenza, di formazione professionale, di centri europei di innovazione tecnologica e di intelligenza artificiale. Non è bastata la logica dell’austerità voluta dalla Germania e scelta dall’Europa per uscire dalla crisi del 2008, che ha visto costi molto elevati e ricavi  molto modesti per franare poi nell’attuale decrescita.
Il bilancio europeo non può essere uguale alla semplice sommatoria dei bilanci nazionali. Bisogna realizzare meccanismi di assicurazione europea contro la disoccupazione realizzando uno strumento di stabilizzazione delle politiche di bilancio secondo una logica di cooperazione.
Malgrado tutto ciò, non bisogna dimenticare come l’Europa sia una sfida in parte vinta. C’è stata creatività politica nella creazione dell’attuale modello di integrazione europea, nonostante tutti i limiti non marginali che sono stati evidenziati. Va riconosciuto che dopo la barbarie del nazismo e del fascismo, dopo i lutti terribili delle guerre mondiali si è data all’Europa una prospettiva di pace. Ha prevalso la cooperazione per dare stabilità alla democrazia dei popoli europei; si è avuta un’indubbia crescita economica e sociale; abbiamo vissuto anni di pace.
E ora? Il grande sogno di De Gasperi prevedeva di passare dall’integrazione economica a quella politica secondo un modello federale.
Il nostro grande statista sosteneva che la costruzione dell’Europa ha bisogno di passione civile per realizzare una fraternità di popoli.
Non è proprio quello che vediamo attorno a noi..., eppure la rotta non può che essere quella già tracciata da lui.

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