Banche, Paolo Arrigoni: "La pandemia ha amplificato le criticità del sistema"
- di: Diego Minuti
Paolo Arrigoni, 56 anni, di Lecco, è un parlamentare della Lega, in cui milita praticamente da sempre. È stato per due mandati sindaco di Calolziocorte (Lecco) e, per due consecutive legislature, consigliere provinciale di Lecco. Nelle elezioni politiche del 2013 ed in quelle del 2018 è stato eletto Senatore. È questore a Palazzo Madama e, nel giugno scorso, è stato indicato da Matteo Salvini come responsabile del dipartimento Energia della Lega, quasi un “ministro ombra” per questo importante settore. Arrigoni è anche componente del Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, che di recente si è occupato anche del delicatissimo tema della tutela degli asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurativo. Al senatore Paolo Arrigoni Italia Informa ha rivolto alcune domande.
Il Copasir, di cui lei parte, ha lanciato un forte allarmesulle mire straniere nei confronti di eccellenze, soprattutto economico-finanziarie, del nostro Paese. È un segnale di pericolo generico o, a suo avviso, fondato su evidenze?
"È un segnale concreto, e aggiungerei, purtroppo. Nel corso delle riunioni del Copasir abbiamo analizzato, tra le altre decine di documenti portati alla nostra attenzione, anche la ‘Relazione annuale della Banca d’Italia del maggio 2019 su dati al 31 dicembre 2018’. Dall’esame di questo documento è emerso che la percentuale di titoli di Stato italiani in possesso di investitori stranieri ammonta al 22,3 per cento (al netto dei titoli detenuti dall’Eurosistema, esclusa la Banca d’Italia, e di quelli riconducibili a risparmiatori italiani). Una percentuale che, credo, non abbia bisogno di commenti o considerazioni. In particolare, gli operatori istituzionali francesi sarebbero in possesso di 285 miliardi di euro di debito pubblico italiano, che al 31 dicembre 2019 ammontava complessivamente a 2.409 miliardi. Quindi, riepilogando, l’11,83 per cento del debito pubblico italiano è detenuto in mani francesi. L’attivismo francese sul fronte delle acquisizioni di quote di istituti finanziari italiani (ma anche del settore assicurativo) continua, peraltro, ad essere costante. Basti guardare, ultima in ordine di tempo, l’Opa lanciata nei giorni scorsi da Crédit Agricole sul Credito Valtellinese per 700 milioni di euro. Quello che ci deve indurre a preoccupazione è ancora a livello di ipotesi, ma potrebbe diventare una realtà: ovvero che gli operatori esteri possano determinarsi ad attuare azioni speculative ostili sui titoli di debito italiani. Se poi consideriamo che le società assicurative sono detentrici di grandi quantità di debito sovrano nel patrimonio di proprietà, è un obbligo comprendere l’importanza per la sicurezza nazionale connessa agli assetti proprietari e di management di questo genere di società, che sono private e quotate sul mercato dei capitali".
Il sistema bancario del nostro Paese torna, ciclicamente, a mostrare le sue criticità. Ma, nonostante tutto, è uno dei pilastri della nostra economia, guardando alla raccolta di risparmio e, quindi, all’impegno nell’acquisto dei titoli di Stato. Quali, a suo avviso, i correttivi da adottare per rendere le nostre banche più coinvolte nel Sistema Paese e non solo collettori di raccolta di risparmio?
"La pandemia ha amplificato le criticità del sistema bancario e assicurativo ed in questo senso è stato importante estendere la Golden Power - di cui si auspica la proroga temporale ad oltre il 31 dicembre 2020 - come strumento di difesa diretto del settore, anche alle operazioni che vedono coinvolti soggetti appartenenti a Paesi UE. Il nostro sistema bancario è da tutelare, anche intervenendo con correttivi a monte affinché le regole imposte dalla UE non risultino eccessivamente penalizzanti per la nostra economia, ma è certamente chiamato ad assicurare maggiormente il credito ai privati e alle imprese, soprattutto le piccole e medie, che soffrono drammaticamente di carenza di liquidità, che in molte zone del Paese sfocia persino nel fenomeno dell’usura. In questa ottica rilevo che in conseguenza della riforma Renzi del 2016 e delle regole europee in materia di controlli, le gestioni bancarie minori sottoposte a tre livelli di vigilanza ha fatto venir meno il principio mutualistico, su cui si fondava il credito cooperativo, e pertanto la sua funzione sociale e il ruolo di finanza «di soccorso» si è andato progressivamente depauperando, a danno del tessuto economico locale, e in particolare delle piccole e medie imprese, che costituiscono l’ossatura del nostro sistema Paese. Certamente sarebbero utili correttivi a questa normativa nazionale".
Le "sofferenze" delle banche potrebbero, anch’esse, indebolire l’anello di sicurezza che è stato steso intorno ad esse. È un fenomeno che sembra non potere essere sconfitto, anche in considerazione delle particolarità del nostro sistema produttivo e dei meccanismi di accesso al credito. Ha una proposta per contrastare l’aumento esponenziale dei crediti deteriorati?
"Il nostro sistema finanziario e creditizio è ulteriormente messo alla prova, dovendosi confrontare con una ennesima emergenza, il Covid-19 che comporterà ricadute negative soprattutto sulle esposizioni. Penso alla rarefazione dei crediti alle imprese (soprattutto le Pmi, base portante del nostro sistema Paese) da parte degli istituti bancari. Ma penso soprattutto all’aumento delle sofferenze, a partire dai crediti incagliati. Il timore è che questi ultimi si trasformino in crediti a sofferenza (diventando Npl crediti non-performing loans). Quindi con la possibilità che, diminuendo il valore degli Npl ed aumentando, di contro, la difficoltà a collocarli sul mercato, si assista ad un coinvolgimento dei titoli finanziari composti da crediti da cartolarizzazione. Questo tema si collega direttamente alle difficoltà di crescita economica del Paese, che la pandemia aggraverà. D’altra parte la percentuale di rischio connaturata alla natura stessa degli Npl ha spinto gli originari detentori dei crediti a cederli a prezzi poco remunerativi, in considerazione dell’elevato rischio per chi li acquista (di solito sono gruppi inglesi specializzati in questo settore). I numeri degli Npl in Italia parlano da soli: sono pari a circa 177 miliardi di euro, dei quali 96 di sofferenze e 81 miliardi di crediti Utp (acronimo in inglese della frase "improbabile che paghi" che si commenta da sola). C’è poi da tenere conto dei 184 miliardi di euro ancora da gestire, ceduti a società di servicing da parte delle banche nel periodo 2015-2019, che potrebbero vedere incrementate le probabilità di mancato recupero con la conseguente cancellazione dai bilanci. Se si domanda se il nostro sistema corre il concreto pericolo che i crediti deteriorati crescano come valore, la mia risposta è sì. Il rischio esiste fino al punto che gli Npl potrebbero astrattamente salire significativamente in percentuale rispetto agli attivi bancari verso privati e imprese. In questo senso il Calendar provisioning, insieme di regole rigide adottate dalla BCE a fine 2018, per le quali le banche devono recuperare i crediti secondo una tempistica molto stringente, a prescindere dalla possibilità di un effettivo recupero del credito stesso, rappresenta un serio problema con conseguenze fortemente negative per le banche stesse, che si ritroveranno spesso costrette a svalutare il proprio portafoglio e a cedere questi crediti a condizioni molto svantaggiose. In questo periodo in cui le economie di quasi tutti i Paesi UE stanno gravemente soffrendo a causa della pandemia Covid-19 occorrerebbe un ripensamento di tali regole".
La Francia (da cui giungono segnali di fortissimo interesse verso nostri ‘gioielli’ bancari ed assicurativi) da sempre guarda alle imprese italiane di pregio (basta solo pensare alla filiera del lusso) facendone oggetto di aggressive campagne di acquisizione, con una reciprocità che ci vede nettamente in svantaggio. Nel mercato globale ci sta anche questo, ma ritiene che l’Italia faccia veramente del suo meglio per difendere le sue eccellenze dal pericolo di passare di mano?
"Nel momento in cui, come Italia, operiamo sul mercato, ne accettiamo le regole, anche se talvolta esse si ritorcono contro di noi. Se la globalizzazione ci consente di produrre qui o là e vendere
nel resto del mondo, sappiamo benissimo che lo stesso ragionamento lo fanno altri. La Francia, in questo, ed è forse un po’ duro ammetterlo, è più avanti di noi, perché, grazie anche ad una classe finanziaria illuminata, vanta una lungimiranza che noi come Paese non abbiamo ancora. Basta guardare a come i francesi si muovono da decenni nel settore del lusso e come, se individuano una eccellenza italiana su cui mettere le mani, fanno di tutto per portare a compimento il loro disegno, magari riuscendo anche a migliorarne l’immagine (ed i numeri). L’aggressività francese non la scopriamo oggi, ma bisogna pure ammettere che i nostri vicini d’oltralpe, se si parla di acquisizioni, difficilmente sbagliano una mossa. Di contro noi non abbiamo ancora trovato il modo di rendere non conquistabili le nostre eccellenze da parte di chi bussa alla porta con tanti soldi, davanti ai quali, a meno che non si abbiano fortissime remore di carattere emozionale (come quelli legati ad aziende di famiglia), è difficile resistere. Sono le regole di questo gioco e, siccome non le possiamo cambiare, dobbiamo adeguarci rendendoci prima più competitivi e, quindi, più forti. Alcuni famosi marchi della moda sono italiani solo per convenzione. Da noi restano i creativi; i ragionieri, quelli che contano gli incassi, sono a Parigi. È duro dirlo, ma è tutto qui".
Un aspetto della nostra economia di contiguità che viene, forse, colpevolmente trascurato è il costante progredire di vendite di esercizi commerciali a imprenditori stranieri che approfittano di favorevoli contingenze economiche per garantirsi una importante presenza in settori mercantili. È un fenomeno che, al di là delle normali dinamiche commerciali, sta cancellando importanti porzioni della nostra cultura, quella dei quartieri e dei rioni che vivevano intorno ai piccoli negozi. Come, a suo parere, si può preservare la nostra memoria in questo settore?
"Per comprendere l’ampiezza di questo fenomeno bastano solo pochi dati che riguardano i capitali provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese (includendo anche quelli che arrivano da Hong Kong e Macao, regioni amministrative speciali sottoposte al controllo cinese) e che mostrano tassi di crescita costanti nel tempo. Secondo una relazione della Banca d’Italia, i flussi di investimento diretti esteri provenienti dalla Cina sono passati dai 573 milioni di euro nel 2015 a 4,9 miliardi di euro nel 2018. Contestualmente, le rimesse verso la Cina sono nettamente diminuite: dai 237,7 milioni del 2016 si è passati a 1,4 milioni nel 2020. Quest’ultimo è un dato interessante, ma poco indicativo perché forse non corrispondente ai valori reali, che devono tenere conto che le rimesse verso la Cina sono in buona parte frutto di economia sommersa (attività lavorativa in nero, ovvero proventi non dichiarati al fisco), oppure di attività criminali, che “ripuliscono” i loro incassi con il riciclaggio di denaro. Una situazione che potrebbe fare pensare che gli investitori cinesi, radicandosi sempre più nel tessuto produttivo nazionale, decidano di reinvestire in Italia i proventi delle proprie attività. Il problema che lei ha sollevato, quello del sempre più alto numero di esercizi commerciali in mano a titolari stranieri, per quanto riguarda quelli cinesi sta raggiungendo numeri elevatissimi. Basti pensare che gli imprenditori cinesi attivi nel commercio sono quasi ventimila, mentre sono 17.000 quelli attivi nel manifatturiero e oltre 7.000 quelli dell’accoglienza alberghiera e ristorazione. E quanto più cresce il loro numero, più avanza il processo di ‘deitalianizzazione’, mi si consenta questo termine, di importanti settori del commercio che mi piace chiamare sociale, svolgendo la funzione di cerniera tra il passato e il presente. I mini-market cinesi dove si vende tutto e a prezzi concorrenziali, trattandosi di merce che arriva dalla madre patria dove il costo del lavoro è bassissimo, stanno scacciando dal mercato, ed è solo un esempio, le mercerie italiane che non erano solo il punto dove si vendevano oggetti e piccoli attrezzi della nostra tradizione, ma, in un certo senso, un luogo di aggregazione".
Può fornirci degli esempi concreti?
"Una conferma viene dalla Lombardia che, per presenza di cinesi tra ristoratori e baristi, è la prima regione italiana, con 2.564 imprenditori su 7.131, pari al 36 per cento nazionale. La presenza cinese è forte nel commercio, anche ambulante, nel manifatturiero e nel settore della ristorazione e dei bar. Un fenomeno che non è localizzato solo in poche aree, ma è omogeneo, ancorché maggiormente marcato al Centro-Nord, generando peraltro effetti anche negativi ad esempio nel settore degli immobili commerciali dei centri storici o dello shopping. Da tempo molti commercianti che hanno i loro esercizi nei centri storici delle città si trovano a dovere pagare fitti sempre più elevati e, quando la situazione diventa non più sostenibile, lasciano i locali, che immediatamente vengono occupati da imprenditori cinesi che non hanno evidentemente problemi economici. La situazione, per grandi linee, è questa e non c’è molto da aggiungere, se non che noi, parlo della classe politica, dovremmo capire che cosa è più importante, se vedere progredire alcune categorie commerciali o mercantili oppure adoperarsi per preservare il patrimonio di cultura, tradizioni e sociale si lega ad esse. Non è un interrogativo che si può risolvere lanciando in aria la classica monetina. Abbiamo tutti la consapevolezza che i capitali stranieri, se si muovono nell’ambito della legalità, spandono ricchezza seppure - come nel caso degli imprenditori cinesi - non allontanandosi dalla cerchia etnica. D’altro canto non si può svendere la propria
tradizione per un pugno di denari".
Quando si pensa alla nostra economia e ci si accorge che di essa si interessa un organismo delicatissimo, in termini di competenze, come il Copasir, montano le preoccupazioni. A suo avviso, la consapevolezza del pericolo è stata raggiunta tempestivamente o abbiamo accumulato troppo ritardo?
"Il Copasir con l’approfondimento sugli asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurativo ha voluto analizzare e poi evidenziare, con la propria relazione pubblica trasmessa al Parlamento lo scorso 5 novembre, i processi che sarebbero probabilmente rimasti privi di visibilità, e che invece rivestono carattere strategico per l’economia e quindi per la sicurezza del Paese. E’ indubbio che la tutela della sicurezza e degli interessi nazionali, nell’attuale contesto globale, si debba perseguire anche sul terreno delle strategie economiche e finanziarie. E per questo è forte l’auspicio che possa accrescere l’impegno delle istituzioni nazionali nelle sedi europee, ove vengono assunte decisioni sempre più rilevanti per gli assetti economico-finanziari del Paese, non solo sotto il profilo normativo ma altresì per quanto riguarda le strategie complessive".