A scuola si prendono le cotte letterarie più solenni, ed è proprio quello che è accaduto a Claudio Paglieri, giornalista e scrittore che, da ginnasiale, conquista un otto per il componimento «Personaggi simpatici e antipatici dei Promessi Sposi». La scintilla era già scoccata per il conte Attilio Arrigoni, cugino di don Rodrigo, «allegro, ironico, con il gusto della provocazione e la capacità di tramare nell’ombra» e, poiché certi amori di gioventù non finiscono, Paglieri ha continuato ad accumulare materiale e idee per decenni, in attesa del tempo giusto, ripercorrendo i luoghi manzoniani, e studiando la rivalità, spesso taciuta, fra le famiglie Manzoni e Arrigoni a causa delle miniere di ferro del Lecchese.
Intervista a Claudio Paglieri: il Conte Attilio, l'eroe inaspettato
Così,
un personaggio secondario che fu definito “
un virtuoso della malizia e un manesco senza rimorsi”, grazie alla penna ispirata di Paglieri diventa l’eroe di un romanzo di cappa e spada, a
mbientato a Milano e, in parte, a Genova, tra il 1627 e il 1628. La narrazione inizia nelle Fiandre dove lui, Attilio Arrigoni, è a capo della compagnia dei Gallardes e combatte contro gli olandesi, quando una giovane donna che gli è molto cara chiede il suo aiuto, disperata perché costretta a prendere i voti dal fratellastro. Da qui si dipana la rocambolesca corsa di Attilio verso Milano e una storia tutta da leggere, nel primo romanzo storico, edito da Giunti, dell’autore genovese pluripremiato per la fortunata e affascinante saga in sette romanzi del Commissario Marco Luciani.
Perché proprio il conte Attilio Arrigoni: cosa l’ha colpita così tanto di questo personaggio?
Mi è stato subito simpatico. “I Promessi Sposi” sono un capolavoro, non sto certo a discuterli, però non trovavo nessun personaggio, tra quelli principali, che mi ispirasse particolare simpatia: per cui fare il tifo, come si dice. Quando si legge un romanzo, un po’ ti identifichi magari nel protagonista o nella protagonista, o in una spalla, magari hai qualcuno che ti piace. A me Renzo non è mai stato simpatico, Lucia men che meno. Invece, mi è piaciuto subito questo conte Attilio, perché era sotto questa cappa cattolica della Provvidenza, fai questo, non fare quello, ma lui è uno che se ne frega, è proprio il classico nobile che si ritiene superiore a tutti questi precetti, e quindi vive la vita con un senso di gioia, di godersi le cose belle, le donne, mangiare, bere, fare la bella vita. Viene definito “spensierato” nei Promessi Sposi, però, in realtà, sempre nei Promessi Sposi dimostra di avere un bel cervello perché lui è uno dei motori principali, alla fine, del romanzo. Intanto, fa la scommessa con Don Rodrigo, perché secondo me si diverte molto per il fatto che Don Rodrigo si sia incapricciato di questa Lucia, che non è una bellezza particolare come poi ci diranno, e non è neanche una nobildonna, è una donna del popolo. Però, suo cugino si è fissato con questa ragazza e quando lo vede in difficoltà con Frate Cristoforo, entra in azione dimostrando di essere uno stratega. Mi piaceva questo suo doppio binario: da un lato si sa divertire, dall’altro, quando è il momento di impegnarsi, sa anche fare le cose come si deve.
Interessante anche il rovesciamento di prospettiva di Don Rodrigo che, ne ‘I Promessi Sposi’, è il cattivo e ne ‘Il Conte Attilio’ è il buono che aiuta il cugino in una situazione particolare.
Lui sta avendo questa faida in corso con i Manzoni ed è un combattivo. Quando arriva Attilio che è un guerriero, bravo con la spada, pensa, adesso andiamo a vendicarci di questi Manzoni che ci stanno togliendo le miniere, ci stanno rovinando. È buono nel senso che aiuta il cugino, però all’epoca era assolutamente doveroso aiutare un parente in difficoltà perché, più che allo Stato, più che all’Impero spagnolo, o al suo governatore, si doveva essere innanzitutto fedeli alla propria famiglia. C’era un senso della famiglia molto forte, quindi, se un parente aveva bisogno, si doveva intervenire. Era all’interno della famiglia che si svolgeva tutta la vita, anche e soprattutto quella dei nobili. Si trattava sempre di eredità, di favori, di matrimoni, di sposarsi tra parenti non strettissimi, oppure di famiglie che si alleavano per mettere insieme patrimoni e conservarli. Quando diciamo buono o cattivo, in senso magari anche giuridico, rispetto alla legge, rispetto alle norme, teniamo sempre presente che quello che a loro interessava soprattutto era il bene della loro famiglia. Questo vale sia per Don Rodrigo, sia per il Conte Attilio, sia per il Manzoni.
Lucrezia, la protagonista femminile del romanzo, è una donna molto moderna rispetto alla sua epoca, mi ha fatto pensare ad Artemisia Gentileschi.
Ah, ne ho lette di biografie sulle pittrici di allora. Fede Galizia è anche un personaggio del libro, e poi Artemisia, Sofonisba Anguissola: ce ne sono tante di quell’epoca, e questo perché è chiaro che le donne, nel Seicento, vivevano una vita molto costretta tra scelte obbligate. Conosciamo già dai Promessi Sposi le monacazioni forzate, che anche io richiamo in questo libro. Erano una delle due scelte principali che avevano le donne: o entravano in convento, oppure si sposavano e non è che potessero tanto scegliere come sposarsi, quindi dovevano in ogni caso anche loro sacrificarsi per il bene della famiglia. Quando la famiglia aveva pochi soldi le mandava in convento perché il convento non pretendeva una grande dote, se la famiglia i soldi li aveva, aveva anche interessi a creare legami di un certo tipo con altre famiglie, le dava in spose a un membro di quell’altra famiglia, magari molto più anziano, oppure orribile, chi lo sa. Soltanto donne di nobile condizione e con un’educazione adeguata, che permetteva loro di coltivare le loro passioni, capire cosa volevano dalla vita, potevano uscire da queste vite obbligate. Se avevano il carattere che ha Lucrezia, e chiaramente non tutte ce l’hanno, potevano appunto vivere una vita più autonoma, se non indipendente, come Artemisia che ha avuto sicuramente le sue disgrazie, i suoi problemi, però, con forza di volontà e un grande carattere è riuscita ad essere una donna superiore al suo tempo, una che comunque lavorava, che guadagnava parecchio denaro con il suo lavoro perché era brava, che si sceglieva gli uomini, gli amanti e, una volta che era riuscita a togliersi dal giogo del marito e del padre, ha fatto la sua vita. È chiaro che Lucrezia è un’eccezione per il suo tempo, però io creo un’eroina, una coprotagonista che comunque deve essere forte, è un’anti Lucia, per tanti versi. Lucia è sempre condizionata dalla madre, dal fidanzato, da Frate Cristoforo, da tutti i precetti che deve seguire, e invece Lucrezia è una donna, in questo senso moderna, che fa le sue scelte.
Lei è un giornalista, un giallista, ora ha vissuto l’esperienza del romanzo storico: quanto tempo è stato necessario per la preparazione sul conte Attilio e sul Seicento?
La genesi del racconto risale ai tempi del ginnasio: è un libro che ho coltivato, a cui ho pensato per tanto tempo. Questa voglia riemergeva periodicamente, e quando ho deciso finalmente di farlo, ci sono voluti un paio di anni di studio intenso prima di mettermi a scrivere: uno studio piacevole, perché buona parte dello studio è stato leggere romanzi e saggi ambientati all’epoca o scritti direttamente all’epoca, come la Trilogia dei Moschettieri di Dumas, o il Tulipano Nero, o Théophile Gauthier. Poi, c’era la ricerca di tutta la storia tra le famiglie Manzoni e Arrigoni, però sempre studiato la Storia molto volentieri, forse è la mia materia preferita, quindi questa della documentazione è una parte bella. Quando ti appassioni, non finiresti mai di studiare, andresti avanti a oltranza. Ogni cosa che scopri te ne fa scoprire un’altra e così via, e si ha la possibilità di andare a vedere tutte queste cose, la pittura, i colori, oppure devi studiare i cavalli, le armi, le monete, che all’epoca erano complicatissime. Per fortuna ci sono tanti libri fatti bene che mi hanno aiutato, anche per la storia delle spedizioni dell’argento, che era abbastanza complessa. È stato divertente.
Lei è giornalista, scrive romanzi gialli e storici: in quale aspetto si sente più a suo agio?
Si parte chiaramente dalla scrittura. Penso, forse è un pensiero anche un po’ presuntuoso, che se uno si vuole sentire scrittore, deve saper scrivere un po’ di tutto. Questa definizione che uno è un giallista e basta, è una cosa moderna. Gli scrittori che noi studiamo a scuola esploravano, e facevano di tutto: commedie, tragedie, sonetti. Magari erano più bravi a fare una cosa e meno bravi a farne un’altra, però conoscevano tutti i generi letterari, li praticavano, quindi io, che voglio considerarmi uno scrittore, devo essere in grado di fare i gialli e devo essere in grado di fare anche i romanzi storici. Poi potrò essere più bravo, meno bravo, in uno o nell’altro, l’importante è che io conosca il contesto in cui mi muovo, e per fare questo bisogna partire dalla lettura. Ho letto tantissimi romanzi storici e d’avventura perciò, quando mi sono messo a scrivere, da quel punto di vista ero abbastanza ferrato sui passaggi tipici che volevo esplorare per scrivere un romanzo di quel tipo. Si sa cosa ci deve essere: le spade, i duelli, gli inseguimenti, gli agguati, i complotti, le fanciulle, tutta una serie di cose che secondo me il lettore si aspetta in un romanzo di cappa e spada. Il giallo è più complicato, ci sono tante sfumature, puoi addirittura fare il giallo comico, come usa adesso, puoi fare il noir, puoi fare il thriller. Dal punto di vista della scrittura è molto diverso fare il giallo oppure il romanzo storico o d’avventura, come definirei questo, perché nel mio stile, almeno, sul giallo ero molto più un giallista di dialoghi e situazioni, piuttosto che di azioni, mentre “Il Conte Attilio” è un libro di azione. Ci sono dialoghi, magari anche divertenti, però ho dovuto scrivere molte più scene di azione che non erano proprio il mio forte quando facevo il giallista. Anche su questo ho dovuto migliorarmi, e quindi mi ha fatto piacere cambiare stile ed esplorare.
A proposito dei dialoghi: leggendo i suoi libri si sente una sorta di amore per i dialoghi, che sono credibili, non è da tutti. Da dove nasce questa cura per il dialogo?
A me è sempre piaciuto fare dialoghi, nel senso che, istintivamente, se devo scrivere una scena metto davanti due personaggi, e cominciano a parlare. Poi, questa scena verrà vista e rivista tremila volte, tagliata, perfezionata, però il dialogo è quello che mi viene più facile dal punto di vista della scrittura. Non so da cosa derivi, è una cosa che mi porto dietro da sempre, anche il gusto della battuta. L’ironia mi è sempre piaciuta, da quando ero ragazzo.
Per scrivere i suoi libri segue un metodo di scrittura oppure si affida all’ispirazione?
Uso sempre la metafora tra lo scrittore architetto e lo scrittore giardiniere. L’architetto è quello che prepara tutto prima, fa lo schema capitolo per capitolo, immaginando quello che succederà, quindi sviluppa la trama, decide cosa farà ogni singolo personaggio, va avanti così fino alla fine e quando ha davanti tutto ben chiaro si mette a scrivere seguendo quel tipo di canovaccio. Il giardiniere è quello che invece parte da un’idea, si butta e poi sta a vedere che cosa fiorisce e che cosa no. Io sono più sul giardiniere, quando comincio a scrivere ho un’idea abbastanza vaga di quello che succederà. Ho un’idea forte che mi fa mettere alla scrivania e cominciare un libro, però poi, rispetto a quello che pensavo all’inizio, magari cambia veramente tutto, perché i personaggi, come hanno detto altri più illustri di me, fanno quello che vogliono, e non puoi costringerli a fare cose che tu avevi deciso prima. Se li costringi non funzionano, devi seguire loro e andare nel flusso. In un certo senso, con questo modo tante volte perdo un sacco di tempo, perché seguo una strada scrivendo tante scene che vanno in una direzione e, a un certo punto, mi rendo conto che quella direzione non funziona, devo tornare indietro e quindi quasi tutto quello che ho fatto è diventato inutile, devo ripartire su un’altra strada. Magari faccio molti tentativi, tanti tagli, tanti cambiamenti che invece uno più ordinato di me, più rigido nelle scelte non fa, però il mio metodo, che non è un grande metodo e non consiglio a nessuno, è questo.
Come nasce il suo amore per la scrittura?
La mia è una famiglia di professori di liceo, giornalisti, scrittori, abbiamo sempre predicato l’amore per la lettura, per la scrittura, sono cresciuto in una casa piena di libri e questo sicuramente mi ha aiutato. Mi è sempre piaciuto leggere e credo che comunque la scrittura parta dalla lettura, se non hai letto tanto è difficile che tu possa scrivere bene. E poi, penso che sia anche una questione di carattere: bisogna essere, come nel mio caso, persone a cui piace stare da sole, chiudersi in una stanza e passare le giornate a scrivere. Altri preferiscono uscire, giustamente, e farsi un aperitivo. Quindi, c’è un po’ di formazione genetica e un po’ di carattere. È quello che ho sempre voluto fare: alla fine, anche fare il giornalista è stato più legato al piacere di scrivere che non a tutti gli altri aspetti della professione, che sono numerosi. Quando lo fai, non si scrive poi così tanto, magari si finisce a passare i pezzi degli altri, però va bene, per carità. L’idea era che il giornalista comunque scriveva e, in effetti, ho anche scritto tanto. In genere, quando si va in là con l’età e con la carriera, si finisce di più in ufficio, però è naturale. Ho i miei libri che mi permettono di sfogare la necessità di scrivere.
Quali sono i suoi capisaldi letterari?
Sicuramente il “Conte di Montecristo”: è un libro assoluto, di una bellezza, di una completezza. Forse è il romanzo più bello mai scritto, per me, o comunque quello che ti dà un grande piacere. Poi ci sono i romanzi russi, bellissimi, però se penso di sedermi in poltrona per leggere un bel romanzo, rilassarmi, divertirmi, io penso a Dumas. Di scrittori, poi, ce ne sono tanti: ho tutti i libri di Vonnegut, tutti i libri di John Fante, tutti i libri di Houellebecq. Ci sono tanti scrittori che ammiro, Amin Maalouf, Romain Gary, fantastico, è difficile limitarsi a pochi nomi. Da qualche anno però quelli che leggo più volentieri sono Dumas, Verne, di cui ho riletto tanti libri prima di mettermi a scrivere, perché ha questa capacità di trascinarti, divertirti e di portarti in altri mondi.
Un po’ come la corsa di Attilio verso Milano.
Per quello devo citare anche Tex. Perché da ragazzo sono stato, e sono ancora, un lettore vorace di Tex e anche Tex è un eroe legato a quella formazione, a quelle letture del suo creatore, Gianluigi Bonelli, e ai film che andavano al cinema negli anni Cinquanta e anche prima, che sono comunque, sempre, film di avventura. Il West, in fondo, è abbastanza simile al mondo che racconto io.
C’è qualcosa di Tex in Attilio Arrigoni?
Assolutamente. Tex è un eroe e, ragionando sugli eroi, dico spesso che negli ultimi anni forse sono emersi tanti anti-eroi. Specialmente parlando di gialli, ci sono tanti commissari che sono un po’ bipolari, un po’ dei naufraghi della vita, sono lì, a cinquant’anni, divorziati, con rapporti difficili con i figli, non hanno tanta voglia di fare la loro, ci si trovano un po’ invischiati, hanno queste indagini difficili che non hanno neanche voglia di fare. Poi sono bravi, risolvono tutto, ma non hanno quell’entusiasmo, quella passione che un eroe ha a tutto tondo, come appunto Tex e come il conte Attilio, che sa che cosa vuole raggiungere e a cosa vuole arrivare. In genere, Tex vuole fare giustizia o vuole vendicare qualche torto che ha subìto, lui o qualche suo caro, e quindi vanno diritti allo scopo. Sono eroi a tutto tondo: io avevo voglia di scrivere di un eroe, quindi molto diverso da Luciani. Mi rendo conto era uno non tanto simpatico, chi legge le sue storie ci si affeziona, però ha un carattere respingente. Ha una sua ironia, però è abbastanza rigido: credo che affezionarsi ad Attilio sia più facile.